“Adesso lasciatemi fuori”. Queste sarebbero le parole pronunciate dopo la caduta del governo dal premier dimissionario Mario Draghi. E il riferimento neppure tanto velato è a quel cosiddetto “campo largo” che il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, sta cercando faticosamente e in fretta di costruire dopo essersi visto sfumare l’alleanza con il Movimento 5 Stelle. La porta a Giuseppe Conte è stata chiusa, reo di avere posto fine anticipatamente all’esperienza del governo di unità nazionale. Per Letta resta una sola strada: raggruppare tutti i centristi in ordine sparso, stringendo con loro un’alleanza all’insegna dell’“Agenda Draghi”.

Il campo largo che non c’è

Nello schema rientrerebbero Carlo Calenda, Emma Bonino, Luigi Di Maio, forse anche Matteo Renzi, nonché ciò che resta di Leu e Sinistra Italiana e i transfughi di Forza Italia. Ma veti incrociati (Calenda non vuole di Maio, Letta non vuole Renzi) e dubbi di natura programmatico-ideologica (Nicola Fratoianni e Roberto Speranza puntano a un “rassemblement” progressista con l’M5S) rendono l’iniziativa tutt’altro che agevole.

In realtà, l’Agenda Draghi non scalda i cuori dell’elettorato piddino. E a ben vedere. Essa è tutt’altro che identitaria, diremmo persino politicamente fluida. Del resto, il programma messo a punto dal governo Draghi sin dalla sua nascita cercava di accontentare la più ampia maggioranza parlamentare della storia repubblicana, che andava dalla Lega a Leu. Dunque, fare campagna elettorale sull’Agenda Draghi sarebbe non solo scorretto verso il suo ideatore, che giustamente sta restando fuori dalla contesa, ma anche potenzialmente un boomerang. In essa mancano tutte le parole d’ordine care alla sinistra, dallo ius soli al salario minimo, dal reddito di cittadinanza alla patrimoniale.

Conte farà suoi i temi di sinistra

Conte e ciò che resta del suo malconcio M5S cercheranno di recuperare consensi prospettando agli elettori del Sud il rischio di abolizione del reddito di cittadinanza nel caso di vittoria del centro-destra e dello stesso centro-sinistra.

Già, perché se Letta ha negli ultimi tempi difeso il sussidio, alcuni suoi possibili alleati (Calenda e Renzi) sono fortemente contrari. Addirittura, l’ex premier aveva iniziato a raccogliere le firme per celebrare un referendum abrogativo.

Lo stesso dicasi del salario minimo. Il PD non è stato contrario, forse nella volontà di rincorrere i 5 Stelle con cui saldare l’alleanza, ma allo stesso tempo si ritrovano possibili alleati con i contrari. Insomma, l’Agenda Draghi rischia di portare qualche voto ai centristi grazie all’operazione di “rebranding”, svuotando di significato e contenuti residui già carenti un PD rimasto senza bandiere sociali da sventolare.

Agenda Draghi prigione per PD

Che l’Agenda Draghi serva per raccattare alleati e cercare di conquistare quanti più seggi possibili, data la situazione di partenza, lo hanno capito tutti. Che essa possa tradursi in un grosso limite per il PD lettiano, lo hanno compreso forse in pochi. Perché se ci atteniamo al significato dell’espressione, presentarsi agli elettori sotto le insegne del programma del governo caduto significa rivendicare comunanza di intenti con il centro-destra avversato a parole, nonché accettarne le limitazioni che ciò comporta sul piano programmatico. L’Agenda Draghi seppellirebbe tutti i temi identitari cari alla sinistra, diverrebbe una prigione dalla quale i democratici uscirebbero solo “strappando” in campagna elettorale con i propri alleati per non prestare eccessivamente il fianco ai “grillini” di Conte. Insomma, quasi un’autocensura prima del voto.

[email protected]