Questi ultimi giorni di campagna elettorale stanno vedendo le attenzioni dei leader politici concentrate sul reddito di cittadinanza, tema sensibilissimo al Sud. Da un lato c’è il Movimento 5 Stelle che difende la sua bandiera di sempre, dall’altro partiti come Fratelli d’Italia e Azione più apertamente contrari, sebbene Giorgia Meloni abbia aggiustato il tiro, smentendo di volere abolire il sussidio tout court. Ad ogni modo, la questione di fondo riguarda il numero dei poveri in Italia. E’ in crescita e, soprattutto, risulta estremamente concentrato al Sud.

Lo stesso Sud, in cui la percentuale dei percettori del reddito di cittadinanza sale fino al 12% in Campania, quando in Veneto arriva a stento all’1%.

Poveri in Italia cresciuti con spesa pubblica

I numeri ufficiali dell’ISTAT ci dicono che nel 2012 esistevano 937.000 famiglie povere nel nostro Paese, pari a 3,23 milioni di persone. Nel 2020, il dato risultava salito a 2 milioni di famiglie, pari a circa 5,6 milioni di persone. I nuclei indigenti sono più che raddoppiati nell’arco di un decennio, ma non si può certo dire che il problema sia stato la carenza di risorse pubbliche disponibili per la lotta alla povertà.

Nel decennio considerato, la spesa pubblica era salita di oltre il 20% da 783 a quasi 945 miliardi. Al netto dell’incremento avvenuto con la pandemia, registrava comunque un +11% a 871 miliardi. E nello stesso tempo, la spesa per interessi sul debito pubblico era scesa, per cui si erano liberate risorse dello stato da destinare eventualmente ad altre voci. Dunque, com’è possibile che il numero dei poveri in Italia aumenti insieme alla spesa pubblica? La risposta è molto meno paradossale di quanto sembri, anzi possiamo affermare che proprio l’aumento della spesa pubblica abbia generato quello della povertà.

L’inefficienza della mano pubblica

In che senso? La spesa pubblica consiste nella sottrazione di risorse al settore privato (famiglie e imprese) per offrire servizi ed erogazioni monetarie ai cittadini.

Tuttavia, come ben spiega la metafora del secchio bucato di Okun, essa è intrinsecamente inefficiente, perché quel che arriva a destinazione è sempre inferiore alla ricchezza prelevata dalle tasche dei contribuenti. Il resto è sprecato in burocrazia e, molto spesso, corruzione.

A causa di quanto detto, l’aumento della spesa pubblica determina un impoverimento dell’economia, contrariamente a quanto molti di noi siamo portati a credere. Per non parlare dell’effetto negativo che essa comporta per via della concentrazione di ricchezza nelle mani dello stato, cioè della politica. Saranno i governi, ergo i partiti, a decidere come utilizzare quote crescenti di risorse versate dai contribuenti e attraverso criteri del tutto arbitrari, che riflettono più esigenze elettorali che non reali. Vedasi i mille bonus di questi anni o, in una certa misura, lo stesso reddito di cittadinanza.

Serve uno stato più snello

Più alta la spesa pubblica in rapporto al PIL e più forte l’assalto alla diligenza delle lobby. Il che è persino naturale: se la categoria X ottiene aiuti dallo stato, perché non anche la categoria Y? Ed ecco che più alta la quota del reddito nazionale intermediata dallo stato, maggiori le inefficienze, per cui minore il tasso di crescita dell’economia. Il numero dei poveri in Italia non cresce malgrado l’aumento della spesa pubblica, bensì a causa di esso.

I governi che si succedono ormai da decenni non fanno che mettere in un modo o nell’altro le mani nelle tasche dei cittadini per spillare loro risorse da utilizzare per scopi sempre più clientelari ed elettoralistici. Lavoratori, imprese e consumatori si ritrovano con meno denaro a disposizione e che spenderebbero meglio per le loro esigenze. I poveri in Italia sono il risultato di questa tendenza di cui non s’intravede la fine.

Bisogna tagliare la spesa pubblica per aumentare il benessere sociale. Ma fa molto poco “cool” dirlo per un leader politico. Anche questa campagna elettorale dimostra che la promessa di prebende pubbliche mantiene intatto il suo fascino, chiunque la faccia.

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