La politica e i media del Bel Paese celebrano entusiasticamente il ritorno di Piazza Affari in Italia. Dopo 13 anni, gli inglesi hanno deciso di venderla ai francesi. London Stock Exchange ha ceduto Borsa Italiana a Euronext per la cifra di 4,325 miliardi di euro. Nell’operazione si sono inseriti due investitori istituzionali italiani – CDP e Intesa Sanpaolo – che otterranno rispettivamente l’8% e il 2% del capitale. Di fatto, Milano farà parte della prima borsa europea. Londra non avrebbe voluto privarsene, ma è stata costretta dalle autorità Antitrust di Bruxelles, a seguito della sua acquisizione, ancora da completare, di Refinitiv da Reuters per 27 miliardi di dollari.

Gli inglesi, appropriandosi della società di data company, avrebbero avuto una posizione eccessivamente dominante sui mercati dei capitali del Vecchio Continente. LSE aveva rilevato Borsa Italiana nel 2007 per 1,6 miliardi. Le sinergie tra Milano e Londra sono durate, dunque, 13 anni. Nel 2017, sempre LSE aveva avanzato un’offerta per comprare Deutsche Boerse, la borsa tedesca, ma l’iniziativa fu bloccata dalla UE e sempre per ragioni di concorrenza.

Cosa ci sia di glorioso in questa vicenda non è dato capirlo. E’ vero, due player nazionali hanno ottenuto una quota di minoranza del capitale, ma si tratta per l’appunto di un misero 10%, che certo non consente loro di distribuire le carte. Ma l’aspetto più umiliante, semmai volessimo parlare di ritorno in mani italiane, appare un altro: gli inglesi (ci) hanno rivenduto il nostro asset finanziario dopo 13 anni a un prezzo di quasi 3 volte superiore, maturando una plusvalenza di oltre 2,7 miliardi.

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Finanza italiana di “nani”

Questo significa che sono stati bravi a valorizzare Borsa Italiana in un periodo dannato per il mercato finanziario italiano. I valori azionari sono implosi a Milano con la crisi mondiale del 2008-’09 e non si sono più ripresi, attestandosi oggi mediamente a circa il 45% dei massimi di maggio 2007.

Per contro, noi sistema-Italia siamo stati così incapaci, che in un primo momento abbiamo venduto agli inglesi, evidentemente non riuscendo a trovare un acquirente domestico che abbia potuto competere in termini di prezzo; e adesso ricompriamo la nostra borsa per una fetta del 10% e pagandola per oltre 2,5 volte di più.

Di fatto, stiamo ammettendo che per valorizzare un asset italiano dobbiamo prima farlo fruttare all’estero, perché in patria non ne siamo capaci. C’è orgoglio in questa constatazione? Diremmo proprio di no. Per non parlare del fatto che Milano passerà dall’essere controllata dagli inglesi ad esserlo dai francesi. Perché? Londra e Parigi hanno i capitali, noi no. E perché? Non abbiamo investitori sufficientemente grandi e risultiamo sottocapitalizzati. Insomma, perché siamo meno bravi degli altri, inutile girarci attorno. Non è il fato avverso che ci fa restare nani dinnanzi ai giganti stranieri, ma un coacervo di disincentivi normativi, fiscali e di arretratezza culturale e imprenditoriale.

Infine, questa CDP, che altro non è che la longa mano dello stato in economia, ormai è come il prezzemolo. La trovi ovunque, anche solo per dissuadere qualche investitori straniero “indesiderato” dal fare ingresso nello Stivale. A parte i rischi che una simile strategia comporta per il sistema industriale e finanziario italiano, vi pare normale che solo un ente del Tesoro sia capace di tenere testa alla finanza straniera, mentre quella italiana sia rimasta affollata da capitalisti senza capitali? Non c’è gloria in questo falso ritorno di Borsa Italiana, perché si è trattato solo di essersi avvicinata a casa, trasferendosi da Londra a Parigi. Da Milano, sussistono ancora 850 km.

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