L’economia italiana sarebbe cresciuta dell’1,4% nel 2017, in linea con le previsioni del governo, ma forse un decimale in meno di quelle degli istituti indipendenti. Purtuttavia, quello passato è stato l’anno con il maggiore tasso di crescita dal 2010, cosa che la dice lunga sui ritmi lenti della nostra economia. Abbiamo già spiegato in un nostro articolo precedente, di cui sotto il link, come il dato in sé positivo andrebbe letto con molta meno enfasi di quella che i nostri politici cercano di ostentare per sostenere il racconto di una ripresa in atto.

Vi proponiamo altri numeri, che chiariranno meglio il concetto per cui l’economia italiana resti in crisi, pur avendo smesso di arretrare, in scia al trend globale positivo.

Perché se questa la chiamano ripresa c’è da preoccuparsi

Crollo pil e lavoro solo a termine

Come sappiamo dall’Istat, al termine del 2017 il pil italiano restava del 5,7% più basso di quello del 2007, ultimo anno prima della crisi mondiale e in cui abbiamo prodotto il massimo livello di ricchezza. Rispetto ad allora, risulta arretrato dell’8,2% anche il pil pro-capite. La differenza con il pil risiede nel fatto che nel frattempo la popolazione residente è di poco aumentata (+2,5%). Ebbene, nello stesso periodo, il pil pro-capite spagnolo è tornato ai livelli pre-crisi, quello tedesco è salito del 9,3%, quello francese dell’1,8% e nel Regno Unito del 3,1%. La media dell’Eurozona è stata nel decennio del +2,7%. Dunque, tutti gli altri hanno compiuto passi in avanti e noi abbiamo indietreggiato e pure di parecchio. Rispetto a un cittadino medio dell’Eurozona, in 10 anni siamo andati indietro di circa l’11%. Disarmante il confronto con i tedeschi: -17,5%.

La produzione industriale in 10 anni è crollata del 16,3% e ciò ha avuto ripercussioni negative sul mercato del lavoro, con il tasso di disoccupazione quasi raddoppiata tra il 2007 e il 2013, scendendo negli ultimi 4 anni di poco più del 2%, ma restando nei dintorni dell’11%, circa il 2% in più rispetto alla media dell’Eurozona.

Quanto all’occupazione, se Germania e Regno Unito superano tassi del 75%, la Francia sfiora il 66% e la Spagna si attesta al 62,5%, in Italia non si va oltre il 58%, stessa percentuale record pre-crisi del 2008, ma distante dalle altre economie avanzate. Innegabile come ad avere incentivato la ripresa degli occupati sia stato il Jobs Act, varato dal governo Renzi con due provvedimenti legislativi nel corso del 2014 e con effetti pieni a decorrere dal 2015. Da allora, risulta essere stato creato 1 milione di posti di lavoro, di cui 585.000 a tempo determinato, tuttavia. E’ dalla metà dello scorso anno che gli occupati temporanei cumulati dal Jobs Act in poi rappresentano più della metà del totale, ovvero man mano che gli effetti della decontribuzione e gli incentivi legati alla graduale applicazione delle tutele dell’art.18 sono venuti meno. All’inizio del 2016, i contratti accesi a tempo indeterminato rappresentavano ancora quasi l’85% del totale cumulato.

L’imbarazzante ripresa del lavoro in Italia in due grafici

Bene solo l’export

Meno ricchezza e meno lavoro hanno depresso pure i prezzi delle case, crollati di oltre il 15% dal 2010 al settembre scorso. Per le case di seconda mano, il segno meno ha superato il 20%. Non tutto è andato storto per fortuna. A fronte di un crollo della produzione e dei consumi interni, ad esempio, le esportazioni sono salite quasi costantemente dal tardo 2009, superando i livelli del 2007 già nel 2010 e segnando un aumento decennale del 50% a fine 2017, quando verosimilmente il saldo commerciale netto annuo dell’Italia si sarà attestato intorno al 3% del pil, replicando il record del 2016.

Possiamo contare almeno un successo in piena crisi, ovvero il rilancio del Made in Italy. Tuttavia, qui siamo stati beneficiati dall’euro debole. Il cambio contro il dollaro, ad esempio, si è deprezzato di oltre un terzo tra la fine del 2007 e l’inizio dello scorso anno, dando una mano alle esportazioni di tutta l’area.

Anche il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime dal 2014 ha contribuito alla crescita del nostro export, abbassando i costi di produzione in un’economia che notoriamente deve importare tutte le “commodities”, sostenendo la nostra competitività.

Euro in rally, export italiano a rischio

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