A fine settembre, quando la legge di Stabilità era stata varata dal Consiglio dei ministri, il vicepremier Luigi Di Maio e altri esponenti del Movimento 5 Stelle si affacciarono dal balcone di Palazzo Chigi per festeggiare l’innalzamento del deficit al 2,4% del pil, necessario per finanziare le misure contenute nella “manovra del popolo”. Senonché, a fare festa furono dalla mattina seguente i mercati finanziari, mentre il paradosso di questa storia è che il 2018, stando agli ultimi dati Istat, avrebbe chiuso con un disavanzo al 2,1%, superiore al 2% successivamente fissato dal governo Conte, dopo tre mesi di trattative intense e durissime con la Commissione europea.

Ormai da oltre un quarto di secolo, il limite massimo invalicabile per i criteri adottati a Bruxelles è del 3%. Il deficit non dovrebbe mai superare tale percentuale rispetto al pil. In tanti si sono chiesti perché mai sia stato fissato questo livello e non uno superiore o inferiore.

La Francia è la Francia e così Macron fa quel che vuole con il deficit

Qualche giorno fa, si è fatto avanti con un’intervista l’ideatore di tale regola, il francese Guy Abeille, ex funzionario del Tesoro di Parigi, oggi 68-enne in pensione. Non era un mistero che il limite del 3% fosse nato in Francia, lo si sapeva da anni. Semmai, qualcuno sarà rimasto adirato nell’apprendere che apparentemente fu introdotto per caso, senza alcuna base “scientifica”, se così possiamo dire. Lo stesso ha raccontato che dal ministero per cui lavorava arrivò nel giugno del 1981 l’ordine di trovare una regola chiara e facilmente vendibile all’opinione pubblica per porre un freno alla spesa pubblica e all’indebitamento crescente dello stato. Poiché il pil francese allora si attestava sui 3.300 miliardi di franchi e il neo-ministro dell’Economia, Laurent Fabius, aveva quasi raddoppiato il deficit-obiettivo dai 30 miliardi fissati dalla precedente amministrazione di Valery Giscard d’Estaing a 55 miliardi e l’allora giovane Abeille stimava in 100 miliardi il deficit per l’anno successivo, quest’ultimo pose un tetto massimo proprio di 100 miliardi, che coincideva grosso modo con il 3% del pil.

L’idea ebbe successo e iniziò ad essere guardata con favore anche all’estero.

Regola del 3% improvvisata?

Da qui, la regola del limite massimo del 3%, che un decennio più tardi rientrava tra i criteri adottati dal Trattato di Maastricht per aderire all’euro e nel 1997 veniva confermata dal Patto di stabilità, vincolante per gli stati dell’Eurozona. Qualcuno dirà che sia assurdo seguire da decenni una regola, che lo stesso ideatore sostiene sia nata praticamente a casaccio. Senza nulla voler togliere alla fantasia “geniale” o meno di Abeille, la storia è andata un po’ diversamente, nel senso che nella cittadina olandese, quando si trattò di mettere nero su bianco i criteri da perseguire per aderire alla moneta unica, il deficit al 3% venne inserito per ragioni maggiormente economiche e legate a un altro rapporto: quello tra debito pubblico e pil al 60%.

L’idea dei 12 capi di stato e di governo di allora consisteva nello stabilizzare nel medio-lungo termine il debito pubblico degli stati dell’euro a non più del 60%. La Germania marciava dal 40% verso tale rapporto, a causa principalmente delle spese di ricostruzione sostenute per la ex DDR. Ai tempi, la crescita del pil era attesa, in condizioni ordinarie, a non meno del 2% all’anno, così come lo stesso tasso d’inflazione. Tenuto conto anche della velocità di circolazione della moneta nell’unità di tempo – il fattore “K” di natura perlopiù istituzionale e che influenza proprio le dinamiche sui prezzi – si ottenne che la crescita nominale del pil nel medio-lungo termine sarebbe stata del 5%. E per stabilizzare il rapporto debito/pil, risulta necessario che il numeratore (debito) cresca non più del denominatore (pil nominale).

Pertanto, il debito pubblico sarebbe potuto variare del 5% all’anno al massimo. E il 5% del 60% fa proprio il 3% del pil.

Perché il deficit al 2% dovrà essere il limite massimo per rassicurare i mercati

Perché il 3% è superato

Non stiamo sostenendo che questa regola in sé sia lodevole, semplicemente che ebbe basi un tantino più rigorose di quello che i suoi detrattori vorrebbero far credere nel tentativo evidente di screditare l’impianto su cui poggia la politica fiscale nell’Eurozona. Il punto semmai sarebbe un altro: la crescita nominale del pil oggi non arriva al 5% nemmeno in condizioni straordinariamente positive. Il target d’inflazione “vicino, ma di poco inferiore al 2%” della BCE non viene centrato stabilmente da 6 anni e la crescita reale si mostra più prossima all’1% che al 2% negli anni buoni. Insomma, facendo qualche conto, ne deduciamo che quel 5% atteso negli anni Novanta per la crescita nominale e fissato come target massimo per il deficit risulta oggi fin troppo ottimistico, per cui andrebbe rivisto al ribasso. Questo significherebbe, però, ridurre i margini di manovra fiscale, non certo alzarli.

Facciamo un esempio. La Germania nel 2018 ha chiuso con un rapporto debito/pil di poco inferiore al 60%. Per tenerlo invariato, non potrebbe permettersi un deficit al 3%, nemmeno se crescesse quanto negli anni passati, ovvero della media del 2% e con un’inflazione eventualmente anch’essa al 2%. Infatti, con questi numeri il suo indebitamento crescerebbe rispetto al pil. Non è un caso che esso si sia ridotto, pur a fronte di una crescita nominale tedesca modesta, grazie essenzialmente a cospicui e costanti avanzi fiscali. In sintesi, il deficit al 3% sarebbe diventata una regola di manica larga, almeno stando alle intenzioni di inizio anni Novanta. Chiaramente, da nessuna parte sta scritto che il rapporto debito/pil debba limitarsi al 60%. Perché non al 70% o all’80%? Per quanto non vi sia una risposta chiara sul punto, presumiamo che i governi di allora abbiano voluto tenersi bassi, così da godere di margini di manovra negli scenari peggiori.

Studi recenti indipendenti segnalano, infatti, che sopra l’80%, il debito pubblico inizierebbe a deprimere i tassi di crescita del pil.

Con il Fiscal Compact del 2012, l’Eurozona avrebbe sostanzialmente preso atto delle mutate condizioni macro e nei fatti attenuato l’importanza della regola del 3%, prevedendo criteri fiscali più stringenti con la fissazione dell’obiettivo di tendere a un rapporto debito/pil del 60% entro i successivi 20 anni, tagliando la parte eccedente di un ventesimo all’anno e prevedendo il raggiungimento del pareggio di bilancio quale regola aurea a cui convergere. Ad oggi, non possiamo certo affermare che si tratti di un impianto rispettato, se non dagli stati del centro-nord. Comunque sia, rappresenterebbe la presa di coscienza che il deficit al 3% da solo non smaltirebbe il peso del debito, ma rischierebbe persino di aumentarlo, a causa dei tassi infimi di crescita e dell’inflazione quasi azzerata. Del resto, se i detrattori puntassero sulla “scientificità” dei criteri fiscali, dovrebbero venirci a spiegare su quali basi il deficit spending genererebbe ricchezza, se il Giappone da molti additato quale esempio di sostenibilità di un debito pur gigantesco non cresce da inizio anni Novanta e, addirittura, lotta contro la deflazione da oltre un ventennio. E l’Italia stessa dovrebbe essere la patria del boom economico con i suoi oltre 2.300 miliardi di debiti, mentre siamo diventati un caso clinico allarmante.

Alzare il deficit non è il problema, semmai cosa farne 

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