Il Partito Democratico (PD) ha accolto la scontatissima sconfitta alle elezioni politiche di domenica scorsa così come tutti pensavamo: dimissioni annunciate del segretario Enrico Letta e convocazione dell’ennesimo (inutile) congresso, dove affileranno i coltelli i capibastone. Da quando è ufficialmente nato nel 2007, mai il segretario del partito ha potuto controllare i gruppi parlamentari, i quali risultano sempre “nominati” da un segretario precedente e dimissionario dopo il voto. La sconfitta in politica è una condizione con cui tutti prima o poi devono fare i conti.

Quando un partito vince sempre, c’è puzza di autocrazia. Ma nel caso del PD c’è qualcosa di patologico. Se si fa eccezione per il 1996, quando la coalizione dell’Ulivo di Romano Prodi vinse le elezioni grazie a un accordo “di desistenza” con Rifondazione Comunista, in questi ultimi venticinque anni o il PD ha perso sonoramente o ha prevalso per sole due volte a seguito o di meccanismi elettorali distorsivi del consenso – nel 2013 ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera con appena il 25% – o per un nonnulla (24.000 voti in più in tutta Italia sul centro-destra nel 2006).

PD partito della Ztl

L’ennesima sconfitta del PD lascia l’amaro in bocca come nel caso di un atleta che perde una gara consapevole di non essersi allenato affatto. E i dem, che adesso recriminano sulle mancate alleanze e pensano di risolvere i loro problemi cambiando nome o anche solo segretario, non si sono neppure preparati per la competizione.

A svelarlo è l’analisi dei flussi elettorali. A fronte del 19% ottenuto domenica, il consenso tra coloro che si dichiarano in condizioni economiche solo appena accettabili scende al 15,3%. E tra chi si dichiara in condizioni economiche inadeguate, crolla all’8,1%. Per contro, Fratelli d’Italia ha ottenuto il 26%, che sale al 28,3% tra la fascia sociale che si considera in condizioni appena accettabili e scende al 13,4% tra chi vive in condizioni inadeguate.

In questi numeri c’è tutta la sconfitta del PD: la sinistra ha rinunciato ad essere il punto di riferimento delle classi sociali meno abbienti per diventare la cassa di risonanza delle élite.

A rubargli il consenso è stato negli ultimi anni sia il centro-destra, sia il Movimento 5 Stelle. Gli ormai “contiani” ottengono il 15,3% su base nazionale, ma arrivano al 19,5% tra chi vive in condizioni appena sufficienti e, addirittura, al 27,2% tra chi si considera disagiato. E poiché gran parte del disagio sociale sta al Sud, non è strano che l’M5S abbia sfondato proprio da quelle parti. Dunque, quando il PD è definito il partito della Ztl, non è un modo di dire. Va bene o, comunque, meglio nei centri cittadini, specie nei quartieri bene. Insomma, il contrario di quanto dovrebbe accadere.

Mutazione genetica che risale a Ciampi

A dire il vero, questa apparente inversione dei ruoli – la destra che rappresenta i deboli e la sinistra le élite – non è storia solo italiana. Basta guardare chi amministra ormai quasi stabilmente metropoli come Londra, New York e Parigi. Sembra quasi che i ceti abbienti, non vivendo più le difficoltà del quotidiano, siano propensi a votare la sinistra su questioni come l’ambientalismo, il multiculturalismo e la difesa dei diritti Lgbt. Tutte di estremo rilievo, precisiamo. Il punto è che la sinistra ha abbracciato questi temi e nel contempo ha abbandonato quelli suoi storici, ovvero essenzialmente il riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Ma in Italia la sconfitta del PD ha anche nomi e cognomi certi. E sono di personalità a cui la sinistra ha guardato e continua a guardare come divinità. Tre nomi su tutti: Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella. Sono gli ultimi tre presidenti della Repubblica. Hanno in comune non solo di essere stati eletti su proposta del centro-sinistra, ma anche di avere adottato un’agenda votata alla tecnocrazia e all’europeismo acritico.

Nel nome dell’euro, Ciampi impiccò le istanze sociali storiche della sinistra. E per “salvare l’Italia”, Napolitano premette sul PD per appoggiare il governo Monti. Lo stesso fece Mattarella con il governo Draghi.

Sconfitta del PD legata allo status quo

Non esiste spazio per il ripensamento dell’Unione Europea nel PD odierno. Questioni come l’euro e la fisionomia delle istituzioni comunitarie sono religioni indiscusse al Nazareno. Con la conseguenza di diventare così il riferimento di quelle fasce sociali benestanti, che di riformare l’attuale sistema non ne avvertono alcuna esigenza, anzi non ne hanno proprio voglia. A un lavoratore che negli ultimi decenni ha lamentato la stagnazione dei redditi, il PD ha risposto sostanzialmente picche. Anzi, per molto tempo ha ribattuto che fosse solo una suggestione frutto di euro-scetticismo e demagogia.

La sconfitta del PD è auto-inflitta e nessuno pensi che ci sarà un’analisi seria post-elettorale. Non è la prima volta che i dirigenti parlano di rifondazione, di “tornare al popolo” e, in un certo senso, alle origini. La mutazione di questi ultimi almeno quindici anni è stata genetica. Non esiste paese al mondo in cui la sinistra attacca la destra per accusarla di destabilizzare i mercati finanziari, di far salire i rendimenti, lo spread, ecc. Accade in Italia, dove il PD si considera il riferimento proprio degli ambienti finanziari e ne adotta persino il linguaggio.

Siamo arrivati al punto che, nella logica del PD, tutti avrebbero diritto di decidere sulle sorti dell’Italia – dai mercati alle cancellerie straniere, passando per la Commissione europea – salvo gli stessi elettori, a cui è semplicemente proposto un programma del tipo prendere o lasciare, inamovibile sulla difesa dello status quo. Domenica, la sconfitta del PD non è stata solamente elettorale, ma anzitutto di approccio alla realtà. Ed è destinata a durare a lungo.

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