Sono mesi difficili per le banche centrali, di vera crisi esistenziale. La storia è più o meno questa: all’indomani della crisi finanziaria mondiale del 2008-’09, a partire dalla Federal Reserve i tassi d’interesse furono azzerati e i mercati inondati di liquidità attraverso una politica di “allentamento monetario massiccio” nota come “quantitative easing”. In tutto il mondo, migliaia di miliardi di dollari finirono sui mercati per acquistare obbligazioni, spingendo il settore privato a spostarsi principalmente sul comparto azionario. Il rischio principale che i governatori vollero scongiurare fu di far rivivere alle rispettive economie anni di temutissima deflazione.

Tracollo storico del potere d’acquisto

La deflazione è essenzialmente il contrario dell’inflazione. L’indice dei prezzi scende, anziché salire. Le banche centrali temono moltissimo questo fenomeno. Esso è considerato causa di stagnazione secolare e il caso del Giappone negli ultimi 30 anni è preso da esempio. In effetti, se il mercato ha aspettative calanti sui prezzi, i consumatori tendono a rinviare l’acquisto di beni durevoli e servizi, mentre le imprese tendono ad anticiparne la produzione. Ciò provoca un costante eccesso di offerta, che a sua volta amplifica la deflazione nel tempo.

Ma senza volerci girare troppo attorno, la deflazione è assai temuta per una ragione principale: aumenta il peso dei debiti. Governi, aziende e istituzioni finanziarie con elevate passività rischiano di andare in default. Ed ecco che nei decenni le banche centrali sono riuscite a convincere persino i consumatori, cioè i polli da spennare della situazione, che “un po’ d’inflazione” tutto sommato faccia bene.

Sapete cosa significhi tutto questo? Prendiamo il dollaro, valuta di riferimento mondiale da circa un secolo a questa parte. Dal 1800 ad oggi, ha perso il 95,6% del suo potere d’acquisto. In altre parole, un dollaro del 1800 valeva quanto 23,20 dollari di oggi. Alla sterlina inglese è andata persino peggio: dal 1751 ha perso il 99,6% del valore.

Una sterlina di allora vale quanto quasi 241 sterline di oggi. Persino il franco svizzero, solido per antonomasia, ha perso il 77% del valore di acquisto dal 1956.

Una fake news istituzionale

E questo, a fronte di un tasso d’inflazione annuo medio dell’1,43% negli USA tra il 1800 e il 2022, del 2,04% nel Regno Unito dal 1751 e del 2,26% in Svizzera dal 1956. Quel “po’ d’inflazione” a cui ambiscono le banche centrali devasta con gli anni il potere d’acquisto delle famiglie, rendendole molto, molto più povere a parità di moneta posseduta. Eh, ma la deflazione sarebbe un male persino peggiore! Chi lo dice? Associare la deflazione alla Grande Depressione degli anni Trenta è stata la menzogna storica più facile da propinare negli ultimi decenni.

Se guardiamo allo storico degli USA e delle altre principali economie mondiali, notiamo che la deflazione si è avuta in molte fasi negli ultimi secoli. E solamente negli anni Trenta del Novecento coincise certamente con un periodo negativo per il PIL. Vi era stata, peraltro, anche negli anni immediatamente precedenti e contestualmente a una rapida crescita dell’economia americana. In altre parole, deflazione non è affatto sinonimo di crisi o recessione. Questa è una balla, anzi una “fake news” da assoggettare a “debunking” secondo i canoni dell’informazione attuale. Peraltro, non si capisce perché mai la definizione di “stabilità dei prezzi” sia compatibile con tassi d’inflazione generalmente intorno al 2% all’anno per le grandi banche centrali, mentre non sia mai presa in considerazione anche solo una minima tolleranza per la discesa dei prezzi al consumo.

La “scomparsa” della deflazione

E, guarda caso, la deflazione è diventata un fenomeno rarissimo con l’arrivo del Novecento, caratterizzato dall’avanzamento tecnologico. Paradossalmente, proprio la tecnologia aumenta la produttività del lavoro e abbassa i costi di produzione, per cui sarebbe tendenzialmente deflattiva. Tuttavia, essa ha offerto alle stesse banche centrali la possibilità di “stampare” moneta più facilmente e rapidamente rispetto ai secoli precedenti.

Lo sviluppo delle economie ha reso necessario fare a meno delle monete di metallo per puntare quasi esclusivamente sulle banconote. E queste hanno potuto essere stampate con il tempo senza più alcuna attinenza alla quantità di oro sottostante depositato. Anzi, dal 1971 è stata sancita formalmente la fine del vincolo che legava la massa monetaria all’oro.

Archiviata l’ultima stagione del “gold standard system” sotto Bretton Woods, i banchieri centrali sono diventati onnipotenti e hanno potuto inflazionare le economie a loro piacimento. Basti guardare al caos che riuscirono a provocare negli anni Settanta quando esplosero le due crisi petrolifere del ’73 e del ’79. Anziché reagire riducendo la liquidità in circolazione e non permettendo, quindi, ai prezzi di trovare sfogo attraverso la massa monetaria, tennero i tassi d’interesse ben sotto i livelli d’inflazione e ottennero in un colpo solo più inflazione e stagnazione (“stagflazione”). Chissà come mai le banche centrali amino ancora oggi rievocare il connubio tra deflazione e crisi di quasi un secolo fa, mentre tacciono su quello ben più recente tra inflazione e crisi economica.

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