Anche l’autorevole Ifo, istituto economico tedesco, vede fosco e ha tagliato le stime di crescita per la Germania quest’anno a un pallido +0,6% dal precedente +1,1%. Per il 2020, però, ha migliorato le sue previsioni dall’1,6% all’1,8%. Un po’ tutti gli analisti indipendenti ritengono che l’economia tedesca nel 2019 crescerà attorno o anche meno dell’1%. Considerando che dopo il 2009 sia cresciuta mediamente quasi del 2% all’anno, sarebbe come dire che la “locomotiva d’Europa” abbia tirato bruscamente il freno a mano.

Cosa sta succedendo? Troppi eventi avversi tutti insieme. L’America di Donald Trump minaccia dazi su tutto, a partire dalle auto europee, avendoli già innalzati su beni come acciaio e alluminio, mentre la Cina rallenta vistosamente e per la prima volta da decenni Pechino si aspetta che il pil aumenti quest’anno meno del 6,5%.

Altri segnali negativi per l’economia in Germania. E l’erede di Frau Merkel dice “nein” a Macron

Per non farci mancare nulla, abbiamo il caos Brexit. Non ci si capisce più nulla, con il Parlamento di Londra in guerra con il suo governo, a sua volta in lotta con la UE per ottenere un accordo quanto migliore possibile per il divorzio. In assenza di proroghe, questo avverrà il 29 marzo prossimo, cioè tra poco più di una settimana. Bruxelles è disponibile a concedere un rinvio della scadenza, ma a patto che i deputati di Sua Maestà accettino l’accordo già incassato dalla premier Theresa May. Questo è il bello: per ragioni contrapposte, parte della maggioranza conservatrice e le opposizioni unite rifiutano di votarlo. Anzi, lo hanno sonoramente bocciato per ben due volte. Il rischio è che tra 8 giorni Regno Unito e UE si separino senza un accordo per regolare gli scambi commerciali e tutto il resto. Sarebbe tragico. Barriere tariffarie e non verrebbero erette tra le due parti, colpendo le transazioni di ogni tipo, anche quelle di natura finanziaria.

I problemi non sono finiti. Francia, Italia e Spagna sono alle prese con problemi politici interni tra loro diversi, ma accomunati da un crescente sentimento di rigetto dei rispettivi cittadini verso le istituzioni comunitarie e, più in generale, le élite. A Roma c’è un governo euro-scettico da 10 mesi, mentre a Parigi i “gilet gialli” segnalano il malcontento per le riforme del presidente Emmanuel Macron, la cui agenda è rimasta impantanata tra le proteste rumorose e violente dei manifestanti. La Spagna voterà per le sue terze elezioni in meno di 3 anni e mezzo e i sondaggi lasciano intravedere un pantano parlamentare, con l’ascesa della destra euro-scettica a complicare le possibili alleanze di governo. Infine, la crisi di alcuni mercati emergenti come la Turchia, commercialmente e geograficamente legata all’Europa.

Mercati esteri, i rischi per l’intera Eurozona

USA, Cina, Regno Unito, Italia e Turchia incidono per quasi il 30% delle esportazioni annue della Germania, qualcosa come oltre l’11% del pil tedesco. Se su questi mercati si registrassero ulteriori tensioni, il contraccolpo per Berlino sarebbe duro. I primi segnali sono arrivati nella seconda metà del 2018, quando la prima economia europea si è sostanzialmente fermata. Per adesso, nessuno parla esplicitamente di rischio recessione, ma esso sembra dietro l’angolo. E’ stato sinora proprio l’enorme avanzo commerciale dell’ultimo decennio ad avere trainato la crescita della Germania e, di conseguenza, di tutta l’Eurozona. Dalla crisi del 2009 ad oggi, infatti, la ripresa dell’area è stata sostenuta per quasi la metà (41,5%) dalla sola Germania e per poco più di un quinto (20,7%) dalla Francia. Risibile il contributo dell’Italia (3,1%), marginale pure quello spagnolo (7,4%), per quanto l’economia iberica sia cresciuta a ritmi sostenuti nell’ultimo quinquennio.

Come la Germania è diventata una macchina da guerra sul fronte delle esportazioni nell’euro

Se si ferma la locomotiva, quindi, non esiste altro mezzo di pari forza capace di trainare l’Area Euro.

Qualcuno ribatterà che paradossalmente sarebbe meglio così, in quanto solo una brusca frenata di tutta l’unione monetaria riuscirebbe a incidere sulle scelte dei policy maker comunitari, specie BCE e Commissione europea. Ragionamento in sé veritiero, anche nel concreto potrebbe rivelarsi puramente teorico. Francoforte non dispone più di grossi margini di manovra in politica monetaria, tenendo ancora i tassi azzerati e continuando a reinvestire gli assets acquistati tramite il “quantitative easing” e in scadenza. Presenta un bilancio di circa 4.700 miliardi di euro, il 40% del pil dell’area, doppio di quello della Federal Reserve. Potrebbe sempre riesumare il QE nel caso in cui prevedesse minacce alla stabilità dei prezzi, ma il grosso del lavoro, per non dire quasi tutto, è stato fatto.

Rimarrebbe la sola leva fiscale, sempre che qualcuno abbia voglia o la possibilità di utilizzarla. La Germania potrebbe, vantando bilanci in attivo sin dal 2014 e un rapporto debito/pil in discesa sotto il 60% quest’anno, ma non intende sfruttarla né per sé, né a beneficio dell’area. L’Italia, che vorrebbe, non ne ha i margini, gravata da un debito sopra il 130% e messa alle strette sui mercati finanziari da un costo del denaro che non ha eguali nel mondo avanzato. Ad oggi, proprio le esportazioni hanno tenuto a galla la nostra economia, oltre che quella tedesca. Se anche il surplus commerciale evaporasse, sarebbero guai seri per noi nell’immediato, non potendo confidare su una solida domanda interna, ma la stessa Germania si ritroverebbe a fare i conti con un problema di lungo periodo, che ne metterebbe a repentaglio la fisionomia che si è ritagliata da tempo puntando sui mercati esteri.

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