La pubblicazione dei verbali relativi alla riunione del FOMC a giugno ha confermato il prevalere delle istanze restrittive in politica monetaria dentro la Federal Reserve. I governatori del board si sono detti preoccupati circa la persistenza dell’inflazione americana e hanno concordato un possibile orientamento ancora più restrittivo nel caso in cui le pressioni sui prezzi al consumo non dovessero diminuire, affinché il pubblico non perda fiducia nel Comitato. I mercati ne hanno dedotto un altro maxi-rialzo dei tassi FED per fine luglio, quando si terrà il quinto board dell’anno.

Tassi FED ancora su

A giugno, il governatore Jerome Powell annunciò un rialzo dei tassi FED dello 0,75%, il maggiore sin dal 1994. Il costo del denaro fu portato nel range 1,50-1,75%. Era allo 0-0,25% fino al marzo scorso, prima che iniziasse la stretta monetaria. Questo significa che alla fine di questo mese i tassi saliranno ancora al 2,50%. Sarebbe il livello più alto da oltre tre anni a questa parte. Fino a dove si spingerà l’istituto?

Partiamo con le aspettative del mercato. Stando ai contratti derivati di CME Group, alla fine di quest’anno i tassi FED si attesteranno al 3,50%. Ciò presuppone un aumento di altri 100 punti base o 1% dopo luglio. Questo sarebbe il culmine, dato che nel corso del 2023 non sono più intravisti ulteriori aumenti. Anzi, il mercato inizia a prezzare la possibilità di un taglio dei tassi già a partire dall’estate dell’anno prossimo.

Quanto alle aspettative d’inflazione, risultano scese in area 2,50% per i prossimi cinque anni. Praticamente, già con il board di luglio la FED riuscirebbe a portare il livello dei tassi fuori dall’area negativa. Con un minimo rialzo a settembre, i tassi diverrebbero nuovamente positivi in termini reali dopo anni. Il Treasury a 10 anni si è impennato dal 2,77% al 2,93% dopo la pubblicazione dei verbali (quasi al 3,10% venerdì), segno che la durezza delle parole usate dall’istituto per contrastare l’inflazione non fosse stata del tutto scontata.

Sale il rischio recessione

Resta il fatto che a metà giugno il rendimento decennale americano fosse salito a poco meno del 3,50%. Il ripiegamento non sarebbe affatto tecnico, bensì frutto delle crescenti probabilità di recessione per l’economia americana nel breve termine. Più tali probabilità salgono, meno probabile che la stretta prosegua ancora a lungo. In altre parole, Powell difficilmente riuscirebbe a portare i tassi FED al 3,50% previsto. D’altra parte, insieme al resto del board deve fare di tutto per convincere il mercato che così sarà. La faccia dura contro l’inflazione serve a “raffreddare” le aspettative e ad avvicinarle all’obiettivo di medio termine del 2%.

Così come nei mesi scorsi c’è stata una sottovalutazione dell’inflazione, nelle prossime settimane lo stesso accadrà con il rischio recessione. A dirla tutta, qualche trimestre di crescita negativa per l’economia americana gioverebbe alla FED, la quale potrebbe meglio e prima raggiungere i suoi obiettivi se i consumi ristagnassero o diminuissero, riducendo la pressione sui prezzi al consumo. Per il momento, nessun problema per il dollaro. Resterà “super” anche qualora i tassi FED dovessero salire un po’ meno del previsto dopo luglio. Le altre banche centrali, BCE in testa, sono ancora molto indietro con la stretta.

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