Sono passati quasi 8 anni da quando un ambulante tunisino si diede fuoco per protestare contro i soprusi delle forze dell’ordine, che gli avevano sequestrato il mezzo con cui tentava di sbarcare il lunario, chiedendogli una mazzetta per riaverlo indietro. Quel gesto, che dopo giorni di agonia provocò la morte dell’uomo, scatenò una reazione diffusa tra l’opinione pubblica, fungendo da classica goccia che fa traboccare il vaso. Fu l’inizio della Primavera Araba di Tunisi, che portò poco dopo alla caduta del regime di Ben Alì, in carica dal 1987.

Le manifestazioni dilagarono in molti altri stati a maggioranza islamica, dove si mescolarono istanze sociali a politiche, nel senso di una richiesta di maggiore libertà di espressione e di una liberazione dalle catene della povertà. I risultati in Tunisia sono stati tutt’altro che entusiasmanti ad oggi, per quanto lo stato nordafricano resti forse l’esempio migliore delle rivolte del 2011.

Parità tra i sessi anche sull’eredità, qui dove esplose la Primavera Araba 

Sul piano politico, si sono succeduti diversi governi e al potere sono arrivati gli islamici moderati di Ennahda, i quali non sembrano, però, avere scatenato una campagna repressiva delle libertà delle donne o avviato una islamizzazione della società. Tuttavia, i risultati economici non possono considerarsi soddisfacenti. Il tasso di disoccupazione è altissimo, pari al 15,4% al termine del primo trimestre ed esplode al 35% tra i giovani, proprio coloro che reclamarono con le proteste del 2011 migliori prospettive di vita. Al contrario, le condizioni appaiono così precarie, che non sono in pochi ad unirsi agli scafisti per fuggire verso l’Europa.

Per abbassare la disoccupazione serve creare nuovi posti di lavoro, a loro volta dipendenti dalla congiuntura economica. E qui casa l’asino. Per quest’anno, la Tunisia crescerà del 2,8%, una percentuale apparentemente interessante, ma per un’economia emergente non è granché, persino deludendo le attese del governo, che ambirebbe a un +3% del pil entro la fine dell’anno.

Il Fondo Monetario Internazionale ha negli anni recenti erogato prima e rinnovato dopo un prestito da 2,9 miliardi di dollari, chiedendo l’attuazione di politiche di austerità fiscale. Queste sono state messe in pratica con il taglio della spesa pubblica, ma ciò non ha impedito al debito pubblico di passare dal 39% del 2010 al 69% del pil nel 2017.

Il rischio di un collasso tunisino

E se facciamo il confronto con gli ultimi mesi del regime di Ben Alì, scopriamo che il dinaro ha più che dimezzato il suo valore di cambio contro il dollaro, più che raddoppiando così l’inflazione, sostanzialmente tra il 7,5% e l’8% negli ultimi mesi. Nel frattempo, il livello delle riserve valutarie è sceso da oltre 9 ad appena 4,4 miliardi, segno che l’economia tunisina non riesce ad attrarre sufficienti capitali per finanziare il disavanzo commerciale cronico. Nel tentativo di alleviare le sofferenze della popolazione giovanile, in particolare, la UE ha concesso nel 2016 a Tunisi di esportare 35.000 tonnellate di olio d’oliva senza dazi in 2 anni. Non pare che la misura abbia contribuito granché a risollevare le sorti dell’economia locale, mentre un qualche effetto positivo a sostegno della crescita lo sta avendo negli ultimi mesi il boom del turismo, con 5 milioni di stranieri che quest’anno hanno già visitato il paese e 8 milioni attesi in tutti i 12 mesi. Sarebbe una decisa ripresa dopo gli attentati di matrice islamista al Museo del Pardo del 2015, che provocarono numerose vittime tra i turisti stranieri, mettendoli in fuga per anni.

E c’è un grave problema in questo quadro poco confortante dell’economia tunisina: il debito denominato in valuta straniera, detto anche debito estero. Esso risulta schizzato dal 50% del pil del 2009 a oltre l’80% attuale. Con il cambio ad avere perso solo quest’anno l’11%, diverrà sempre più difficile per imprese e famiglie onorare i pagamenti in dollari, euro, etc.

Si tratterebbe di qualcosa come 35 miliardi di dollari di prestiti, molti dei quali erogati da banche europee, esposte anche complessivamente per circa 265 miliardi di dollari nei confronti della Turchia. E se questo debito non dovesse mostrarsi sostenibile, il problema sarà europeo, quali che siano i creditori della Tunisia. Un collasso economico dell’economia emergente avrebbe implicazioni geopolitiche esplosive: i flussi dei clandestini in fuga sui barconi aumenterebbe e la pressione sulle coste italiane si farebbe enorme, surriscaldando lo scontro già altissimo tra Roma e Bruxelles.

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Dovremmo sperare che il paese riesca a crescere a ritmi più sostenuti con l’adesione dall’anno prossimo al COMESA, arrivata dopo due anni di intense trattative. L’area di libero scambio tra 19 economie dell’Africa orientale e meridionale potrebbe rinvigorire le esportazioni. Il COMESA vale un pil combinato di 800 miliardi di dollari e scambi interni per 250 miliardi. Auspicabile almeno che Tunisi riesca così ad attrarre maggiori capitali stranieri, arrestando l’indebolimento del cambio e rendendo più agevole il pagamento del debito estero. Un crollo dell’economia nordafricana è l’ultima cosa che servirebbe all’Europa, già stressata dal flop delle Primavere Arabe di inizio decennio, le cui conseguenze sono quelle di cui parliamo da tempo su Libia e migranti.

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