Quotazioni del petrolio a 71 dollari al barile per il Brent e sopra i 63 dollari per il Wti americano. Dal punto più basso toccato nel dicembre scorso, il mercato mondiale del greggio ha recuperato il 40%, pur restando di oltre il 20% più basso di inizio ottobre, quando il Brent aveva sfondato gli 86 dollari. Il rally è stato sostenuto dai tagli della cosiddetta OPEC+, vale a dire il cartello dei paesi esportatori capeggiati dall’Arabia Saudita, più la Russia e altri produttori esterni minori.

Quattro mesi fa, fu deciso di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno per la seconda volta in due anni. In realtà, l’auto-restrizione è andata oltre, tanto che l’obiettivo risulta essere stato più che centrato del 135%.

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Ora, però la corsa potrebbe essere giunta al capolinea. Parte dei rialzi è dovuta alle sanzioni USA contro l’Iran, sebbene ammorbidite dall’esclusione di otto economie, tra cui l’Italia, dal divieto di importare petrolio da Teheran. Proprio in considerazione di tali riflessi, l’amministrazione Trump mediterebbe adesso di cambiare rotta, non avendo ottenuto dall’alleato saudita lo stop ai tagli e, anzi, ricevendo in cambio un calo della produzione ancora più marcato di quanto la stessa Riad si fosse impegnata, scendendo a 9,8 milioni di barili al giorno, meno del tetto dei 10 milioni concordato con i partner OPEC.

Sanzioni Iran, cambio di passo USA

Mike Pompeo, segretario di Stato e uomo duro contro l’Iran, stavolta starebbe propendendo per ammorbidire la posizione americana, così da allentare la pressione sul greggio mondiale e segnalare ai sauditi di non gradire il loro atteggiamento sulle quotazioni internazionali. D’altro canto, proprio i sauditi potrebbero ritenere d’ora in avanti sufficiente il lavoro svolto, sebbene propugnino il contrario. Pochi giorni fa, la loro compagnia petrolifera statale Aramco ha emesso obbligazioni tra i 3 e i 30 anni per 12 miliardi di dollari, raccogliendo ordini per oltre 100 miliardi.

Il rally petrolifero ha sostenuto il “mood” sui mercati, ma adesso che la società ha fatto cassa, probabile che al regno non serva più tirare a lungo la corda con gli americani sul greggio.

La stessa Russia ha segnalato l’intenzione di non procrastinare più i tagli, anche perché la produzione americana nel frattempo ha superato i 12 milioni di barili al giorno, strappandole il primato e aumentando le estrazioni di mezzo milione di barili al giorno quest’anno. La domanda, poi, non è detto che regga i rialzi dei prezzi. L’Agenzia internazionale per l’energia continua a stimare una sua crescita di 1,4 milioni di barili al giorno, ma il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto ancora una volta al ribasso la crescita economica mondiale per quest’anno al 3,3%, ai minimi dall’ultima crisi finanziaria globale, un segno negativo per le “commodities”.

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Restano due incognite: Venezuela e Libia. La prima ha visto crollare ad appena 732.000 barili al giorno la sua produzione a marzo, complici i frequenti e duraturi blackout; la seconda ha recuperato le estrazioni dal giacimento di Sharara, ma da un paio di settimane sono riesplose, come sappiamo, le tensioni interne tra il governo ufficiale di Tripoli e le truppe del generale Haftar con possibili ripercussioni negative sulla produzione. Tra i due paesi ballano 1,6-1,7 milioni di barili al giorno. Non pochi, sebbene il margine per una ulteriore discesa non sia più così ampio. Insomma, esisterebbero più ragioni per credere che il rally abbia raggiunto il culmine e che i 70 dollari costituirebbero una barriera difficilmente valicabile a lungo, date le condizioni generali del mercato mondiale.

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