Lo scorso venerdì, il governatore Christine Lagarde ha pronunciato un discorso piuttosto rigido per gli standard recenti della BCE. Ha sostenuto la necessità di dare priorità alla stabilità dei prezzi, come da mandato, pur consapevole che sarà sacrificata la crescita dell’economia nell’Eurozona. Tradotto: i tassi BCE continueranno a salire senza tentennamenti. Al board di settembre, sono stati alzati dello 0,75%. Mai così tanta nella storia, pur breve, di Francoforte. A luglio l’aumento era stato di 0,50%, per cui nell’arco di appena sei settimane il costo del denaro nell’Area Euro è cresciuto di 1,25%.

Non sembra tantissimo, ma effettivamente lo è per un’area abituata sin dal 2014 ad avere a che fare con i tassi negativi.

Tassi BCE dietro ai tassi FED

Considerato che nel frattempo l’inflazione sia salita al 9,1%, i tassi reale risultano persino più negativi di pochi mesi fa, quando stavano nominalmente sottozero. D’altra parte, l’istituto si è mosso con estremo ritardo sulla stretta monetaria. Nessuno si spiega la ragione per cui al board di giugno abbia annunciato un rialzo dei tassi BCE certo per luglio. Mesi di tempo sono andati perduti nella lotta all’inflazione e necessariamente dovranno essere recuperati.

La Federal Reserve ha portato i tassi americani da 0,25% a 2,50% in quattro mesi. Nei prossimi giorni, li alzerà ulteriormente a 3,25%. Dopodiché, il mercato sconta un ulteriore rialzo dei tassi FED fino a un massimo del 4,50% nei primi mesi del 2023. I tassi BCE sono attesi, invece, fino a un massimo del 2,75% al giugno dell’anno prossimo. Questo implica che la divergenza monetaria tra FED e BCE è destinata a restare invariata nel breve periodo. In altre parole, la differenza tra i tassi FED e i tassi BCE è attualmente di 200 punti base o 2% (scontando la nuova stretta americana) e tale resterà anche nei prossimi mesi.

Sulla base di tale divergenza, il cambio euro-dollaro è sprofondato sotto la parità, ai minimi dal 2002.

La BCE deve fare di tutto per non indebolirlo ulteriormente, altrimenti il costo dei beni importati cresce nell’Eurozona e l’inflazione pure. Ciò renderebbe ancora più dura la stretta sui tassi BCE. Il fatto è che a Francoforte l’aria non è quella di Atlanta. Jerome Powell guida la banca centrale di un’economia (americana) in forma, Lagarde deve fare i conti con il rischio recessione per via della crisi energetica.

Eurozona in panne

La francese non può tentennare, perché se la divergenza sui tassi attesa si ampliasse, il cambio euro-dollaro scivolerebbe ancora più in basso, complicando i piani all’Eurotower. Da qui i toni sempre più da “falco” costretta ad esternare, ma a cui i mercati credono fino a un certo punto. A differenza della FED, la BCE deve tenere presente la frammentazione monetaria all’interno dell’Eurozona. Spread elevati tra Germania e Italia segnalano la sua scarsa capacità di azione. Lo scudo anti-spread (TPI) varato a luglio funzionicchia per evitare il peggio, ma rende comunque necessari ingenti acquisti di BTp e vendite di Bund con il PEPP.

Se i rendimenti italiani esplodessero, la stretta sui tassi BCE finirebbe all’istante. Malgrado la retorica, infatti, non sarebbe possibile portare avanti la battaglia contro l’inflazione mentre una parte dell’area prenderebbe fuoco e minaccerebbe la sopravvivenza dell’euro. E l’attivazione del TPI sarebbe tutt’altro che agevole politicamente. Lagarde riporrebbe la sua speranza sull’affievolimento dell’inflazione nell’Eurozona prima che questa entrasse in recessione. Solo così potrebbe allentare la stretta senza colpire il cambio euro-dollaro e la sua stessa credibilità. Ma le probabilità che ciò accada si affievoliscono a ogni giro di manovella del gas da parte di Putin.

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