Anche l’Italia accusa un taglio alle forniture di gas russo. Gazprom le ha ridotte di un ulteriore terzo ad ENI, mentre in Germania i livelli risultano essere di quasi i due terzi inferiori alla media stagionale. Tra pochi giorni verificheremo se il gasdotto Nord Stream 1 sarà riattivato dalla Russia o se le forniture saranno sospese a tempo indeterminato dopo l’ordinaria chiusura per la manutenzione dell’impianto. Il mercato sembra optare per questa seconda ipotesi. Martedì, il prezzo del gas era esploso ai massimi dal marzo scorso, sopra 175 euro per mega-wattora.

Un anno fa, era sotto 35 euro. Siamo al +400%, rialzi insostenibili per le famiglie e i sistemi industriali europei.

Europa vicina all’economia di guerra

La Germania sta già implementando i piani per lo stato d’emergenza. Qualora lo stop alle forniture di gas russo fosse definitivo, priorità ad ospedali e servizi emergenziali, dopodiché alle famiglie e alle imprese. Gli enti pubblici saranno, inoltre, chiamati a razionare i consumi energetici. Uno scenario da incubo, che non risparmierà l’Italia. Il governo Draghi prepara con la supervisione del Quirinale quella che a tutti gli effetti possiamo definire una “economia di guerra”.

Il richiamo all’esperienza degli anni Settanta è evidente. Parliamo dell’infaustamente famosa “austerity”, anche se stavolta consegue a una guerra. L’Italia importa 29 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno sui 76 consumati. Ad oggi, le alternative individuate per rimpiazzare Mosca come fornitore appaiono insoddisfacenti nel breve termine, dato che paesi come l’Algeria e la Libia sarebbero capaci di aumentare le rispettive forniture solo parzialmente e nell’arco di diversi anni.

Vladimir Putin avrebbe deciso di chiudere i rubinetti di Gazprom in piena estate, quando i clienti europei sono soliti accumulare scorte di gas in preparazione per l’inverno. Un anno fa, per varie ragioni ciò non accadde.

E l’Europa si ritrovò in balia dei capricci russi. Il Cremlino vorrebbe ripetere questo schema, con la differenza che nel prossimo inverno il Vecchio Continente ci entrerebbe già stremato da un anno di forti rincari. I governi hanno sinora agito calmierando i prezzi del carburante e le bollette, queste ultime perlomeno a vantaggio delle famiglie meno abbienti. Non basterà.

Consumi razionati per famiglie e imprese

Ed ecco spuntare soluzioni draconiane. A partire dal prossimo autunno, saranno possibili razionamenti dei consumi. Inutile girarci intorno. Nel breve periodo, se la Russia azzerasse le forniture di gas, non ve ne sarebbe abbastanza per soddisfare la domanda. Gli uffici pubblici sono già tenuti a limitare le temperature massime e minime con i condizionatori, ma i risparmi attesi sono marginali. Come già sta preparandosi la Germania, sarà assegnata priorità ai servizi di emergenza e dopo alle famiglie. Non a caso, in questi giorni Confindustria ha lanciato un appello al governo, affinché il sistema produttivo non sia lasciato indietro in questo piano di razionamento.

Nel frattempo, l’illuminazione pubblica sarebbe ridotta (dimezzata?) da parte degli enti locali. Ai negozi sarebbe imposta la chiusura alle ore 19 e ai locali entro le 23. Alle stesse famiglie dovrebbe essere imposto l’abbassamento delle temperature nelle abitazioni private di 2 gradi. In questi giorni, l’Unione Europea ha varato un piano che prevede temperature massime in inverno a 19 gradi e minime in estate di 25. Un solo grado in meno, stando ai calcoli, sarebbe capace di farci risparmiare 180 euro di bolletta all’anno. I risparmi attesi sarebbero di 6 miliardi di metri cubi. Il problema consiste, tuttavia, nel far rispettare l’obbligo. A meno di ipotizzare blitz nelle case degli italiani, dovremmo affidarci al buon senso dei singoli.

Infine, toccherebbe alle cosiddette aziende “energivore”, che hanno elevati consumi di energia e che per questo accettano prezzi ridotti in cambio della possibile sospensione del servizio nei casi di necessità.

Vengono in mente, anzitutto, le acciaierie. Qui, il problema sarebbe sul piano delle ripercussioni economiche. La chiusura temporanea degli stabilimenti colpirebbe l’occupazione, la crescita e ridurrebbe l’offerta dei prodotti in circolazione. Senza l’acciaio, non si potrebbero costruire elettrodomestici, auto, ecc. Si accentuerebbe, in buona sostanza, la carenza di beni verificatasi con la pandemia. E a sua volta, ciò sosterrebbe i tassi d’inflazione, riducendo ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie.

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