Germania formica, Italia cicala. Questa la narrazione dello stato dei fatti nell’Eurozona con riferimento alla crisi del nostro debito. Del resto, mentre il governo Conte ingaggia da mesi una dura battaglia per innalzare il target sul deficit sopra il 2%, ossia per spendere ancora di più a debito, Berlino quest’anno chiuderà il suo bilancio statale in attivo per il quinto anno di seguito e grazie all’austerità fiscale sarà in grado già dall’anno prossimo di far scendere il suo rapporto debito/pil sotto il 60%, l’ambizioso obiettivo inserito nel Fiscal Compact del 2012 e al quale ad oggi sembrano tendere pochissimi stati europei.

I tedeschi sono noti in questi anni per i loro surplus, che stanno facendo infuriare non solo i partner dell’Eurozona, ma anche e, soprattutto, il governo americano di Donald Trump, il quale lamenta che la Germania esporti troppo verso gli USA.

Export Germania da record, ma all’Europa non serve mettere in croce la Merkel

Come stanno le cose? Per capirlo, abbiamo raccolti i dati relativi all’ultimo decennio (2008-2017), nel corso del quale la locomotiva d’Europa ha segnato un saldo attivo medio annuo delle partite correnti del 7% del pil. S’intende che la somma tra esportazioni e importazioni di beni e servizi (saldo commerciale) e quella tra deflussi e afflussi di capitali (saldo finanziario) è stata positiva e per la bellezza di poco meno di 2.000 miliardi cumulati. L’aspetto più interessante di questo dato, però, consiste nella sua composizione. Siamo portati a credere, infatti, che la Germania sia meta di copiosi afflussi di capitali dal resto del mondo, mentre scopriamo che praticamente quasi tutto questo saldo attivo sia originato dalle esportazioni nette, che nel decennio in esame si sono attestate sopra i 1.983 miliardi cumulati, incidendo per il 99,4% dell’intero attivo corrente. I flussi di capitali sono stati di meno di 12 miliardi netti in tutto.

Questo, perché i tedeschi risparmiano e hanno la necessità di investire non solo in patria, ma anche fuori dai confini nazionali, per cui portano molti capitali all’esterno, riuscendo a malapena ad attrarne per lo stesso importo. E va detto che non hanno certo giovato i rendimenti azzerati e persino negativi dei Bund fino a scadenze medio-lunghe. Ancora oggi, se si acquista un titolo di stato tedesco a 2 anni bisogna rimetterci più dell’1% del capitale fino alla data del suo rimborso, essendo il suo rendimento nettamente sottozero.

Quanto alla disciplina fiscale, nulla da eccepire. Lo stato tedesco ha incrementato il debito di 424 miliardi in tutto dal 2008 al 2017, ovvero di circa un quarto in valore assoluto, ma stabilizzandolo in rapporto al pil, grazie alla vigorosa crescita di quest’ultimo per circa 716 miliardi. E va ricordato come l’impennata del debito in Germania sia stata causata, come altrove, dall’esplosione della crisi finanziaria ed economica nel 2008, ma si sia arrestata già nel 2013, quando Berlino riusciva a chiudere il bilancio in pareggio, registrando dall’anno seguente saldi attivi. E, infatti, nell’ultimo quinquennio, a fronte di una crescita nominale del pil di 450 miliardi, il debito si è ridotto di 95 miliardi, un’operazione più unica che rara nella storia delle grandi economie mondiali. Qui, infatti, siamo in presenza non solo di una forte discesa del rapporto debito/pil (dall’80% del 2012 a meno del 64% nel 2017), ma di un calo dello stock in valore assoluto.

L’economia italiana

E l’Italia? Il decennio passato per la nostra economia può suddividersi in due tempi di uguale durata. Nel corso del primo quinquennio, abbiamo registrato forti passivi commerciali e correnti, questi ultimi pari alla media annua del 2,2% del pil e corrispondenti a quasi 180 miliardi di euro cumulati di disavanzi.

Tuttavia, dal 2013, grazie sia alla ripresa delle esportazioni con l’indebolimento progressivo dell’euro, sia alla riduzione dei consumi, seguita al calo della domanda interna, l’aggiustamento macroeconomico è avvenuto e da allora sia la bilancia commerciale che le partite correnti hanno chiuso sempre in attivo, suggerendo che siamo diventati stabilmente un’economia esportatrice. Nel complesso, abbiamo registrato un attivo commerciale di oltre 145 miliardi, pari allo 0,85% medio del pil, mentre il saldo corrente resta negativo di 17 miliardi (+160 miliardi dal 2013), segno che i capitali siano defluiti nei 10 anni per un totale di oltre 160 miliardi.

E se il debito pubblico italiano fosse più solido di quello francese?

E capire da dove siano fuggiti non è difficile: il nostro debito pubblico è salito nel periodo di quasi 600 miliardi, a fronte di appena 93 miliardi di crescita nominale del pil (-5,5% in termini reali). Dunque, per ogni euro di ricchezza in più prodotta, abbiamo contratto 6 euro in più di debiti. Trattasi di un percorso evidentemente non sostenibile, anche perché nel frattempo gli investitori stranieri se la sono data a gambe levate, portando dal 52% nel 2010 al 24% attuale (al netto della quota BCE) la quota di detenzione dei titoli del nostro debito pubblico.

In definitiva, l’Italia presenta da anni ormai caratteristiche macro simili a quelle della Germania, ad eccezione del settore pubblico, che continua a generare deficit. Rassicura, comunque, il fatto che i saldi correnti siano di molto migliorati negli ultimi anni, sebbene gli afflussi netti di capitali, ad eccezione dello scorso anno (e per un pelo) continuino a restare negativi, segnalando che la posizione attiva dell’Italia con l’estero si ha in ragione solo delle sue esportazioni, le quali più che compensano i deflussi finanziari. Il peggioramento in attivo di questi mesi sul fronte dei capitali rischia di intaccare proprio tale solidità di base, che agli occhi della finanza straniera rappresenta ancora una garanzia di tenuta del sistema Italia nei confronti del resto del mondo. Dunque, conservare la fiducia dei mercati sarebbe l’obiettivo minimo di qualsiasi governo in carica a Roma.

Occhio allo spread!

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