Lunedì, Wall Street ha ripiegato sui timori per l’inflazione. L’indice tecnologico al NASDAQ ha chiuso in calo del 3,5%. Le borse temono che la Federal Reserve si trovi costretta ad alzare i tassi più in fretta del previsto. Ma l’inflazione corre anche in Germania. L’indice dei prezzi è salito del 2% annuale ad aprile, più dell’1,7% medio nell’Eurozona. E il peggio deve venire. Non è un caso che due pesi da novanta della BCE siano scesi in campo nelle ore successive all’acutizzarsi delle tensioni finanziarie.

Il consigliere esecutivo tedesco Isabel Schnabel ha voluto anticipare che l’inflazione in Germania potrebbe salire al 3%. Ma al contempo ha cercato di rassicurare i mercati che si tratterebbe di una fiammata provvisoria e che la BCE ha come target la stabilità dei prezzi nel medio termine. E il governatore francese François Villeroy de Galhau ha smentito seccamente le indiscrezioni circa un rallentamento degli acquisti di bond al board di giugno. Egli ha precisato che, pur non essendovi segnali sulla necessità di aumentarli, non vi sarebbe neppure la necessità opposta di ridurli.

Ma le parole che fanno più impressione sono quelle della tedesca. Quell’inflazione in Germania attesa fino al 3% non è cosa da poco conto. Anzitutto, perché da solo il dato pesa per oltre un quarto di quello dell’intera Eurozona. E se c’è un paese nell’Eurozona che custodisce gelosamente la stabilità dei prezzi, questa è proprio la Germania. La Bundesbank mostra nervosismo da mesi sull’entità a suo dire eccessiva degli stimoli monetari messi in campo dalla BCE. Vorrebbe che gli acquisti dei bond con il PEPP fossero scalati, se non ritirati del tutto, e che s’iniziasse a ragionare su un graduale rialzo dei tassi.

Inflazione in Germania e fattore elezioni

In queste ultime settimane, Schnabel è intervenuta due volte apparentemente contro l’indirizzo prevalente tedesco.

La prima per rimarcare l’urgenza del Recovery Fund, bloccato dalla Corte Costituzionale di Karlsruhe. E per rassicurare sulla transitorietà dell’inflazione sopra il target, in questi giorni. Non è casuale. L’economista è consapevole che la sua Germania in questa fase possa trasformarsi in un pericolo per la tenuta dell’Eurozona. In primis, bloccando la risposta fiscale comune alla crisi; secondariamente, reclamando una stretta monetaria precoce, che come (e peggio) del 2011 rischierebbe di travolgere il Sud Europa.

E’ vero, l’inflazione in Germania al 3% sarebbe passeggera. Ma i tedeschi sono entrati in un clima elettorale. A settembre, si rinnova il Bundestag e i sondaggi danno i conservatori di Armin Laschet, delfino della cancelliera Angela Merkel, in svantaggio sui Verdi. Il centro-destra dovrà recuperare tanti consensi per sperare di tenersi la guida del prossimo governo e da una posizione di forza. E picchieranno duro proprio sui temi europei, per convincere i loro elettori disaffezionati e disillusi che solo loro potranno tenere dritta la barra su conti pubblici e ordine monetario.

Un’inflazione al 3% avrebbe conseguenze ancora più devastanti per la già bassa popolarità del governo uscente, a tutto beneficio delle opposizioni. Per questo, da qui a settembre i tedeschi non si faranno passare una mosca sul naso. La politica userà la Bundesbank come il suo braccio armato per piegare all’interno della BCE le resistenze contro il ritiro degli stimoli monetari. Un risultato in tal senso prima delle elezioni federali diverrebbe un trofeo da sfoggiare per i conservatori. E coincidenza vuole che proprio in estate, benché se ne dica al board, inizierà una seria discussione circa il futuro di programmi come il PEPP, lo stesso “quantitative easing” e i tassi negativi. Un’inflazione in Germania al 3% o nelle sue vicinanze farebbe scattare il conto alla rovescia.

[email protected]