Il dato sull’inflazione in Italia a giugno è stato agghiacciante. L’indice dei prezzi al consumo è esploso dell’8% su base annua dal 6,8% di maggio. In un solo mese, segna una crescita dell’1,2%. A trainare il boom è stato ancora una volta il comparto energetico, che ha segnato un aumento dei prezzi del 48,7% da +42,6% a maggio. E dire che il taglio delle accise continui a contenere il prezzo del carburante alla pompa, calmierando anche i costi di trasporto. Senza, l’inflazione italiana certamente risulterebbe ancora più alta.

Non si tratta di un fenomeno nostrano. In Spagna, l’inflazione è esplosa al 10%, in Germania è scesa a sorpresa al 7,6%, ma siamo sempre lì. Nell’intera Eurozona, è salita ulteriormente dall’8,1% all’8,6%, segnando un ennesimo record storico.

L’inflazione travolge i già bassi stipendi

L’inflazione prossima alla doppia cifra è un incubo per i consumatori di tutto il mondo. Tuttavia, in Italia assume connotati particolarmente gravi. Se negli USA l’inflazione si attesta sugli stessi livelli dell’Eurozona, perlomeno gli stipendi dei lavoratori americani stanno salendo alla media del 5,5%. In termini reali, cedono circa il 3%, ma in Europa le cose stanno andando molto peggio. Gli aumenti salariali sono minimi, per cui la caduta della capacità di consumo delle famiglie sarebbe circa doppia. In Italia, peggio di peggio: l’ISTAT ha calcolato un aumento medio delle retribuzioni dello 0,8% nel primo trimestre. Anche ipotizzando un raddoppio nei mesi successivi (non vi sarebbero segnali in tal senso), in termini reali saremmo ad oltre -6%.

E partiamo da livelli già bassi. Gli stipendi italiani, tenuto conto dell’inflazione, dal 1990 al 2020 sono diminuiti del 3%, unico caso tra le economie avanzate. Con l’euro i lavoratori nel Bel Paese avevano perlomeno goduto della stabilità dei prezzi. Essa era bastata per contenere le tensioni sociali dinnanzi ad una crescita stagnante, stipendi modesti e a un’occupazione relativamente molto bassa.

Ma passare da tassi d’inflazione intorno all’1% medio all’8% in pochi mesi è uno shock molto forte, per molte famiglie insostenibile.

Necessario il taglio del cuneo fiscale

Il governo Draghi ha cercato di fronteggiare la situazione con provvedimenti emergenziali come il taglio delle accise e delle bollette per le famiglie con redditi bassi. Non è bastato, lo vediamo dai numeri. Certo, avere concentrato le risorse sulle famiglie meno abbienti contro il boom dei prezzi di luce e gas sta placando le tensioni tra la fascia della popolazione più socialmente disagiata. Tuttavia, il malcontento sta allargandosi al resto degli italiani. Mai come in questi mesi, i lavoratori stanno avendo contezza dell’insufficienza delle loro retribuzioni. D’altra parte, ha ragione il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, quando chiede di non innescare una spirale prezzi-salari-prezzi. Il ricordo degli anni Settanta e Ottanta è vivido nelle menti di molti.

Ma fingere che l’inflazione all’8% non stia divorando il potere d’acquisto sarebbe imperdonabile. L’unica soluzione per sventare possibili tensioni sul nascere sarebbe puntare sul taglio del cuneo fiscale: abbattere i contributi INPS a carico del datore di lavoro e dello stesso lavoratore per tendere a un aumento delle buste paga e dell’occupazione. Confindustria stima in 16 miliardi di euro le risorse necessarie per incrementare le retribuzioni di oltre 1.200 euro all’anno. Sarebbe uno stipendio in più e, soprattutto, coprirebbe la perdita del potere d’acquisto provocata dall’inflazione. Il tempo delle chiacchiere è finito o l’autunno rischia di essere incandescente per i palazzi romani.

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