Bitcoin oggi ha superato un ennesimo record, arrivando a 41.000 dollari. Mentre scriviamo, giace poco sotto tali livelli massimi. Man mano che le sue quotazioni salgono, così come quelle delle altre principali “criptovalute” (vedi Ethereum), crescono sia l’interesse morboso verso questo mondo di fatto sconosciuto ai più, sia lo scetticismo di chi razionalmente cerca valore in un asset e con difficoltà riesce a trovarlo.

Se compro un titolo finanziario, esso rappresenterà una fetta del capitale di una società che produce beni o servizi o entrambi (azioni) o il debito (obbligazioni o bond) di chi lo emette, sia esso un’impresa, una banca o un governo.

Ma il Bitcoin non è nulla di tutto questo. Dunque, perché dovrei comprare qualcosa che non deriva da alcuna creazione di ricchezza? Il punto è proprio questo: siamo sicuri che nel mondo della finanza tradizionale stiamo comprando davvero titoli che siano rappresentativi di una qualche ricchezza solida?

Dal 2009 ad oggi, cioè in appena 11 anni, l’indice S&P 500 a Wall Street è esploso del 355%. Gli utili delle imprese non hanno tenuto il passo, tant’è che prima della crisi finanziaria del 2008-’09, il rapporto prezzo/utili si attestava a circa 21,50, oggi risulta asceso a 38,52. In altre parole, è quasi raddoppiato, cioè siamo disposti oggi ad acquistare un’azione che rende poco più della metà del 2008. Nel frattempo, di meglio (o peggio) è accaduto sui mercati obbligazionari. Nessuno avrebbe immaginato fino a 5-6 anni fa che ci saremmo ritrovati con obbligazioni, perlopiù pubbliche, con rendimenti negativi per 18.000 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Se le azioni offrono rendimenti calanti, le obbligazioni nemmeno quello. Almeno, non senza spingersi negli abissi di rischi incalcolabili. E, comunque, neppure quelli che oggi definiamo “high yield” o “alti rendimenti”, cioè i titoli cosiddetti “spazzatura”, offrono quanto un tempo. Segno che il mercato sia costretto a chiudere un occhio sull’affidabilità di chi ha emesso il debito, pur di portare a casa qualcosa di apparentemente redditizio.

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Le infinite stamperie delle banche centrali

Tutto questo è stato reso possibile da oltre un decennio di politiche monetarie non convenzionali da parte di tutte le principali banche centrali. Dalla Federal Reserve alla Banca del Giappone, dalla BCE alla Banca d’Inghilterra, dalla BNS alla Riksbank, tutte acquistano assets per mantenere liquidi i mercati e sperare di sostenere le aspettative d’inflazione. Invece, dal 2008 ad oggi, negli USA l’inflazione cumulata è stata solamente del 21%, pari a una media annua dell’1,6%. In Europa è andata anche peggio, con l’Area Euro a tratti in deflazione e la Svizzera che lo è quasi strutturalmente.

L’eccesso di moneta in circolazione non solo non sta accelerando i tassi d’inflazione, ma sta finendo per comprimerli. Come? Le banche centrali stampano come se non ci fosse un domani, girano moneta alle banche commerciali e d’investimento, e queste, consapevoli dello stato reale dell’economia, la impiegano sui mercati finanziari, acquistando titoli e innescando la bolla finanziaria. Se facessimo rientrare nei panieri degli istituti di statistica i prezzi di azioni, obbligazioni e fondi, scopriremmo che l’inflazione in questi anni c’è stata, eccome; semplicemente, è relegata alla sfera finanziaria. La moneta stampata a go-go dalle banche centrali non entra sul mercato dei beni e dei servizi, insomma. Ma da qualche tempo, è sensazione comune che la bolla si sia ingigantita troppo. Le banche centrali non possono smettere di stampare, altrimenti lo scoppio devasterebbe le economie come un meteorite che si schiantasse sul pianeta. E così, chi può va cercando alternative alle borse e al finanziamento dei debiti sempre meno sostenibili: l’oro e le monete digitali.

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La nascita delle “criptovalute”

Il metallo è stato un rifugio da sempre per chi vuole proteggersi dai rischi. Sarà un caso, ma le sue quotazioni sono più che raddoppiate da Lehman Brothers in poi. E questo, pur in assenza di inflazione. Ma poiché in una certa misura anche il prezzo dell’oro è manipolabile dalle banche centrali con acquisti o vendite, ecco nascere proprio nel 2009, all’indomani dalla più grande crisi finanziaria da 80 anni, Bitcoin. Decentralizzato, estraibile in quantità limitata e a totale garanzia dell’anonimato. E’ stato solo l’avvio di un variegato mondo dai tratti misteriosi, affascinanti, per certi aspetti inquietanti, ma che sta rispondendo alla domanda di redditività e protezione dalle manipolazioni dei prezzi di una fetta crescente della finanza stessa.

Qualcuno eccepirà che la fuga da una bolla ne stia creando un’altra. Se questo è vero, perché dovremmo preferire una moneta fiat a una digitale, fatto salvo che la prima possa essere svalutata a piacimento da chi la crea? Se l’unica differenza tra le due sta nel differente grado di accettazione – a corso forzo la prima, su libera decisione delle parti per la seconda – il mercato sembra che si stia attrezzando. Cresce il numero delle società, anche multinazionali, che accettano pagamenti in “criptovalute”. PayPal lo ha annunciato in ottobre, mettendo a disposizione dei Bitcoin un mercato di oltre 320 milioni di clienti nel mondo. Il salto di qualità è avvenuto. Il mondo cerca un rifugio dalle follie di onnipotenza dei banchieri centrali.

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