E’ una giornata importante quella di oggi. La Federal Reserve è chiamata ad esprimersi sulle nuove mosse di politica monetaria. Con ogni probabilità, annuncerà il secondo rialzo dei tassi americani consecutivo. A marzo, ha varato la prima stretta da 25 punti base (0,25%) e stavolta dovrebbe stringere di altri 50 punti (0,50%) all’1%. Questo è quanto si aspetta il mercato, che sconta in misura crescente il rischio di stagflazione. Un rischio, che è divenuto molto più concreto anche per l’economia americana, la quale nel primo trimestre si è contratta a sorpresa dell’1,4% rispetto al trimestre precedente.

Le attese erano per un aumento dell’1%.

Stagflazione rischio sempre più probabile

Questo dato macro complica teoricamente i piani del governatore Jerome Powell. Fino alla scorsa settimana, nessuno ipotizzava che un rialzo dei tassi americani più deciso avrebbe mandato il PIL USA in recessione nel breve periodo. Adesso, basterebbe che esso arretrasse anche nel trimestre in corso per accusare una cosiddetta recessione tecnica.

Tuttavia, questa per la FED sarebbe anche l’occasione da prendere al balzo per domare l’inflazione e allontanare lo spettro della stagflazione. Powell potrebbe presentarsi alla riunione in corso fino alla mattinata di oggi (prima serata italiana) dicendo al resto del board: “signori, la recessione è ormai un dato di fatto. Meglio approfittarne per alzare i tassi americani più velocemente del previsto, colpendo in un lasso di tempo più concentrato la domanda aggregata americana. In questo modo, intensificheremo la caduta del PIL oggi, ma batteremo più rapidamente l’inflazione”.

Il cerino in mano alla FED di Powell

Se la prima economia mondiale oggi alzasse i tassi americani dello 0,75%, il mercato riceverebbe un messaggio chiaro: la FED fa sul serio. I prezzi delle materie prime, a partire dal petrolio, scenderebbero per scontare un rallentamento globale. E ciò faciliterebbe i piani delle banche centrali, sgonfiando un po’ l’inflazione, indipendentemente dalle loro mosse di politica monetaria.

Tuttavia, non è affatto detto che l’America s’immoli per salvare sé stessa e il resto del pianeta dalla stagflazione. Tra sei mesi, ci sono le elezioni di medio termine per il rinnovo di gran parte del Congresso. I sondaggi già si mostrano cupi per Joe Biden e i democratici, figuratevi se abbiano voglia di mandare l’economia americana in recessione proprio adesso. D’altra parte, inutile prenderci in giro: per battere l’inflazione serve “distruggere” la domanda, vale a dire i consumi delle famiglie e gli investimenti.

Recessione economica inevitabile

D’altra parte, l’alternativa sarebbe l’inerzia. Ed essa porterebbe a sua volta alla distruzione della domanda per l’impatto negativo che già in questi mesi l’alta inflazione sta avendo sui consumi e persino dell’offerta, dato che molte attività stanno rallentando o sospendendo la produzione per l’aumento eccessivo dei costi.

Il rialzo dei tassi americani più veloce delle attese avrebbe due effetti tra loro ambigui per la prima economia mondiale: rafforzerebbe ulteriormente il dollaro, riducendo l’inflazione importata; aumenterebbe la propensione alle importazioni dei consumatori americani. In pratica, dalla recessione è difficile che si scappi. Ma meglio sarebbe che fosse governata, come accadde a inizio anni Ottanta sotto Ronald Reagan negli USA e Margaret Thatcher nel Regno Unito, anziché rischiare un esito di proporzioni peggiori nei trimestri a seguire.

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