C’era un tempo, quando ancora l’Unione Sovietica stava in piedi, in cui per un dollaro ti davano meno di un rublo. Praticamente, la valuta di Mosca era più forte di quella di Zio Sam. Un’assurdità dettata dalla fissazione di tassi di cambio volutamente eccessivi, così che il regime comunista potesse vantare, in teoria, standard di vita paragonabili a quelli occidentali. Non era così e il trucco fu svelato subito dopo la dissoluzione dell’Urss, quando il cambio cadde progressivamente fino ad attestarsi attorno a 30 rubli contro 1 dollaro nei primi anni Duemila.

Ancora fino al novembre 2014, la Banca di Russia tenne il rublo fissato al dollaro. Con la crisi delle quotazioni petrolifere, decise di farlo fluttuare liberamente sul mercato valutario. Passò da 34,50 a oltre 80 contro il biglietto verde nell’arco di 14 mesi. Dopodiché iniziò il lento recupero contestualmente al rinvigorimento delle quotazioni petrolifere. Quest’anno, il cambio debuttava a 75 rubli per 1 dollaro. A fine febbraio, in seguito all’invasione russa dell’Ucraina e alla comminazione di dure sanzioni da parte dell’Occidente, sprofondava a 140.

La scorsa settimana, dopo che il presidente Vladimir Putin minacciava di accettare solamente pagamenti del gas in rubli, iniziava il rally, che ha portato nelle ultime sedute il rublo a un tasso di cambio di 83 contro il dollaro. Praticamente, lo stesso vigente nei giorni precedenti all’inizio della guerra. Tra analisti e semplici commentatori si è diffusa la convinzione che le sanzioni occidentali, pur durissime, si siano rivelate deboli contro la Russia. E’ davvero così?

Rublo debole già prima della guerra

Per rispondere all’interrogativo, dobbiamo premettere che già settimane prima che la guerra scoppiasse, il mercato aveva grosso modo scontato lo scenario bellico, tant’è che da inizio anno il rublo perdeva il 10%. Dunque, non sarebbe proprio così vero che la valuta russa abbia superato le sanzioni come se nulla fosse.

Se vogliamo essere ancora più metodici, dovremmo ammettere che di per sé il rublo fosse debole prima della guerra, tenuto conto del boom delle quotazioni petrolifere. Poiché la Russia esporta la media di 8 milioni di barili al giorno, avrebbe dovuto rafforzarsi man mano che il Brent galoppava verso i 100 dollari. Se non lo ha fatto è perché l’Occidente ha iniziato a isolare finanziariamente Mosca sin dal 2014, vale a dire con l’occupazione della Crimea e le tensioni nel Donbass.

Non è così vero, dunque, che le sanzioni occidentali siano state poco incisive. Semmai va riconosciuto un altro dato: esse colpiscono poco le esportazioni russe, avendo escluso le materie prime per ovvie ragioni. E la Russia esporta sostanzialmente solo quelle. Viceversa, Europa e Nord America hanno imposto un embargo sulle proprie esportazioni verso Mosca, tra cui di beni di lusso. E’ accaduto un paradosso: la Russia continua ad esportare quasi quanto prima, beneficiando tra l’altro del boom delle quotazioni del gas con la guerra; al contempo, i suoi cittadini stanno trovandosi costretti a importare meno beni dall’estero, a causa anche dei boicottaggi di moltissime multinazionali.

Sul mercato valutario, quindi, si registrerebbe una domanda debole di valute straniere. Ciò sta sostenendo il rublo, unitamente al maxi-rialzo dei tassi d’interesse della Banca di Russia dal 9,5% al 20% a fine febbraio. Questo non significa che la debolezza del rublo sia alle spalle. A meno che l’economia russa riesca a diversificarsi e a rimpiazzare la clientela occidentale con quella asiatica (India e Cina, in primis), il cambio nei prossimi anni resterà sotto pressione. Vero è, però, che forse nessuno si sarebbe immaginato un quasi azzeramento delle perdite a circa un mese dalle nuove sanzioni. Il rally di questi giorni contribuirà a tenere l’inflazione più sotto controllo di quanto avessimo ipotizzato.

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