Tra agosto e settembre, il prezzo del Brent si era portato sui 45 dollari al barile, quasi il triplo dei livelli minimi toccati in aprile, all’apice dell’allarme pandemia. Ieri, risultava risalito a poco sopra i 40 dollari, soglia sfondata al ribasso nel corso delle sedute precedenti sui timori del mercato per una seconda ondata di contagi. Le previsioni sulla domanda appaiono fosche. L’Agenzia energetica internazionale le ha abbassate a una media giornaliera di 91,4 milioni di barili per il 2020, meno dei 91,7 milioni attesi in agosto.

Rispetto al 2019, trattasi di un crollo di 8,4 milioni di barili.

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Gli analisti dell’Aei si aspettano adesso una ripresa della domanda in decelerazione nel corso del secondo semestre, sostenendo che essa sarebbe grosso modo già avvenuta e che resterebbe fiacca, a causa della crescita più lenta delle attese in India e altre economie asiatiche, nonostante la robusta crescita prosegua in Cina.

E parole sconfortanti per il comparto petrolifero sono arrivate niente di meno che dal report pubblicato da British Petroleum, secondo cui la domanda di greggio potrebbe avere raggiunto il picco già nel 2019. Secondo lo scenario ordinario di BP, che contempla preferenze dei consumatori e dei legislatori invariate per i prossimi anni, il picco arriverebbe entro il 2025 e tra il 2025 e il 2030 la domanda si stabilizzerebbe, dando vita a un plateau. Successivamente, declinerebbe.

Picco consumi raggiunto forse nel 2019

Tuttavia, spiega lo stesso report, tra maggiore efficienza nei consumi, volontà dei governi di abbattere le emissioni inquinanti, rischio di una seconda ondata di contagi e mutamenti strutturali nei comportamenti dei consumatori provocati dalla pandemia, probabile che tra il 2020 e il 2025 non si registri più alcuna crescita della domanda rispetto ai livelli del 2019, che potrebbe, pertanto, essere stato l’anno di picco.

L’allarme è stato lanciato anche da diversi analisti alla S&P Global Platt’s Asia Pacific Petroleum Virtual Conference di lunedì, i quali hanno messo in guardia da una possibile seconda ondata dei contagi, che per Ed Morse di Citi rappresenterebbe “l’ultima battaglia” per salvare il comparto.

Altri hanno avvertito anche sulle difficoltà che stanno incontrando i paesi esportatori fortemente dipendenti dalla materia prima e che adesso dispongono di scarse risorse da destinare ai pagamenti degli stipendi pubblici, della sanità e dell’istruzione.

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Petrolio mai più a 50-60 dollari?

E pensare, spiegano, che la fine della stagione estiva dovrebbe frenare un po’ i consumi. In ogni caso, ribadisce Martin Fraenkel, presidente dell’S&P Global Platts, nel 2021 la domanda sarà ancora inferiore ai livelli del 2019. Altri, come il ceo di Ecopetrol, Felipe Bayon, nota come i camion e le merci stiano riprendendo a girare per le strade, mentre sottolinea come la ripresa appaia ben più lunga per il carburante degli aerei. In effetti, non s’intravede un traffico aereo almeno ai livelli dello scorso anno da qui al 2023, stando a numerosi esperti del settore.

Domanda giù e offerta che non si riduce agli stessi ritmi, anche perché tutti i produttori stanno avendo l’esigenza di mantenere i ricavi quanto più alti possibile per pagare i debiti, tenere il passo con i costi o – nel caso delle compagnie statali – per massimizzare le entrate pubbliche. Per non parlare dei meccanismi di mercato e geopolitici, per cui nessuno intende lasciare ad altri quote di produzione, pur essendo stati annunciati tagli agli investimenti per 80 miliardi di dollari, il 30% del budget destinato nel 2019. Se da anni si specula sul fatto che potremmo non rivedere più i 100 dollari al barile, registratisi per l’ultima volta nel 2014, adesso la prospettiva più temuta sembra essere di non arrivare più a vedere i 50-60 dollari del periodo pre-Covid.

E per numerosi paesi esportatori sarebbe un disastro.

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