I numeri che man mano stanno venendo fuori dalle analisi indipendenti sulla crisi energetica europea appaiono ogni giorno più agghiaccianti. Secondo Standard & Poor’s, la bolletta energetica in Europa potrebbe superare di 1.000 miliardi di euro i livelli pre-Covid. Nulla rispetto ai +4.000 miliardi temuti da Goldman Sachs per il 2023. Per bolletta energetica s’intendono le importazioni nette, vale a dire quanto paghiamo ai nostri fornitori extra-UE. Insomma, una batosta che ci costerebbe almeno 2.000 euro a testa. Già gli effetti si notano sulla produzione.

Diverse attività cosiddette “energivore” hanno rallentato o fermato del tutto la produzione. Non riescono a tenere testa ai costi, anche perché non è sempre possibile scaricarli sui prezzi. Pensate che l’acciaio importato dal resto del mondo, Cina in testa, costa meno del nostro, per cui aumentare i prezzi ai clienti risulta impossibile. Anzi, adesso che gli stabilimenti chiudono, stiamo di fatto rimpiazzando la produzione locale con nuove importazioni.

Dalla crisi energetica all’apocalisse industriale

Di questo passo, la crisi energetica lascerà gli europei al freddo, in bolletta e in un deserto industriale. Anche perché quando un’impresa chiude, spesso non riapre più neppure se le condizioni di mercato sono nel frattempo migliorate. Urge un piano per evitare questa apocalisse, ma non può essere nazionale. Le cifre sopra fornite forniscono l’entità abnorme di risorse necessarie per i governi. Quasi nessuno da solo avrebbe oggi la possibilità di attingere a 5-10 punti di PIL per contrastare il caro bollette.

Ed ecco che il piano contro la crisi energetica non potrà che essere europeo. Su due fronti: attacco alla speculazione finanziaria, magari sganciando il prezzo del gas da quello dell’energia e imponendo un tetto al prezzo del gas, ammesso che funzioni (la Russia potrebbe lasciarci totalmente al freddo, non accettando limitazioni alle tariffe praticate); nuovo Recovery Fund.

Nuove emissioni di debito comune

Questa seconda strada per il momento sembra lontana dall’essere imboccata.

Se per la pandemia fu quasi immediata la risposta comune, in questo caso le divergenze tra stati dell’Unione Europea appaiono forti. Il Nord resiste all’ipotesi, il Sud la accarezza. Il Fondo Monetario Internazionale si è appellato a Bruxelles, affinché reagisca alla crisi energetica come fece due anni fa contro il Covid. Lasciati soli, i governi nazionali potrebbero spendere poco e ad alto costo. L’Italia paga il 4% per prendere a prestito capitali a 10 anni, la Germania poco più dell’1,50%. Ciò porterebbe come conseguenza che la prima non avrebbe modo di reagire appropriatamente, la seconda probabilmente sì.

In una siffatta situazione, gli spread esploderebbero. I mercati venderebbero titoli di stato italiani sui timori di recessione economica e per l’aumento del debito nazionale. La BCE dovrebbe reagire attivando lo scudo anti-spread, di fatto minacciando la propria politica monetaria restrittiva contro l’inflazione. Più razionale la risposta comune. Bruxelles emette debito a 10 anni ancora al 2,25%. Non è poco, ma è molto meno di quanto spenderebbero paesi come Grecia, Spagna, Portogallo e, soprattutto, Italia. Certo, servirebbero centinaia, se non migliaia di miliardi di euro di emissioni sovranazionali. Sarebbe un salto di qualità per la UE. Quello che gli stati “frugali” temono, ma a cui presto forse dovranno rassegnarsi se non vorranno rendersi responsabili di una crisi esiziale per l’economia continentale, l’euro e le istituzioni comunitarie.

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