Non è stato un successo neppure stavolta per la BCE di Christine Lagarde. Non siamo per fortuna minimamente vicini ai livelli di sfiducia e panico segnalati dal mercato dopo l’infausta riunione del board del 12 marzo 2020 (“non siamo qui a chiudere gli spread”), ma il flop c’è stato. Giovedì scorso, in Olanda i governatori e i consiglieri esecutivi dell’istituto si sono riuniti e hanno comunicato i seguenti punti di svolta della politica monetaria:

  • stop agli acquisti dei bond con il “quantitative easing” (QE) da fine giugno;
  • rialzo dei tassi a luglio dello 0,25% e possibilmente dello 0,50% a settembre;
  • uso della flessibilità in fase di riacquisto dei bond con il PEPP per ridurre la frammentazione dei mercati.

Lagarde pasticcia ancora con lo spread

I primi due punti non sono stati una novità.

Il mercato aveva scontato sia il rialzo dei tassi a luglio, sia l’uscita dalla lunga era dei tassi negativi a settembre. Lo stesso dicasi per la fine del QE. Quanto al terzo punto, nemmeno in questo caso si è trattato di una novità, ma è stato con ogni probabilità la causa della reazione negativa di bond, borse ed euro, con lo spread BTp-Bund a 10 anni salito subito sopra 220 punti base.

Il mercato sperava e confidava nell’annuncio di un qualche piano per restringere gli spread nell’Eurozona. Non c’è stato. Lagarde si è presentata in conferenza stampa con un pugno di mosche, le solite parole vuote. Hai voglia a rassicurare che, all’occorrenza, disponi della flessibilità necessaria per contenere gli spread. I fatti sono che i BTp ormai offrono rendimenti di oltre il 2% in più rispetto ai Bund e la BCE crede che non ci sia motivo di agire per ridurre tali distanze.

Al netto dell’incompetenza di Lagarde, preoccupa la lentezza dei processi decisionali in Europa. Manca un accordo politico che autorizzi la BCE a contrastare gli spread.

Esso soltanto avrebbe il pregio di disinnescare eventuali attacchi speculativi contro i BTp. Tale accordo manca per una ragione ben precisa: la Germania non si fida dell’Italia. Dunque, la Bundesbank continua a dire “nein” a un meccanismo di sostegno automatico, preferendo subordinarlo a una sorta di “commissariamento” del governo italiano sulle riforme.

Stretta sui tassi tardiva e già a rischio

Ma finché tale scudo anti-spread non sarà stato concepito, a rischiare non sarà soltanto il debito pubblico italiano, quanto la stabilità economico-finanziaria di tutta l’Eurozona. Ricordate cosa accadde nel 2011? La BCE di Jean-Claude Trichet alzò i tassi, gli spread nel Sud Europa esplosero e quando a ottobre arrivò Mario Draghi, dovette tagliarli nuovamente per ripristinare la calma sui mercati. Solo che stavolta un’operazione del genere sarebbe pericolosissima. L’inflazione galoppa verso la doppia cifra e se la stretta sui tassi si mostrasse lenta o, a un certo punto, fosse interrotta, l’Eurozona rischierebbe la stagflazione.

Converrebbe a tutte le parti in gioco trovare un’intesa che consenta alla BCE di alzare i tassi in tempi e dimensioni appropriati senza provocare disastri finanziari in qualche mercato sovrano. Ma gli isterismi nazionali impediscono una simile svolta. Abbiamo la guerra in casa, usciamo da due anni di pandemia disastrosa per la nostra economia (e chissà se sia davvero finita!) e le famiglie stanno perdendo potere d’acquisto come mai negli ultimi decenni. Eppure la BCE non è riuscita a fare l’unica cosa che avrebbe dovuto: garantirsi condizioni ottimali per varare una stretta sui tassi già tardiva.

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