Jackson Hole è una cittadina nel nord-ovest del Wyoming, uno stato con meno di 600.000 abitanti, ma che a fine agosto diventa il centro delle attenzioni di tutta la finanza internazionale. Qui, si tiene il simposio delle banche centrali organizzato dalla Federal Reserve. In questa vallata amena, i principali governatori spiegano le loro future mosse di politica monetaria. E quest’anno Jerome Powell non ha deluso quanti si attendevano novità dall’evento. La BCE non vi ha partecipato ai massimi livelli. Il governatore Christine Lagarde ha mandato in sua vece la tedesca Isabel Schnabel, consigliere esecutivo.

Forse per non sbottonarsi troppo circa le prossime misure di Francoforte, forse perché molto più prosaicamente sarebbe in vacanza.

Il discorso di Powell sui tassi FED

Ad ogni modo, Powell ha tenuto nel fine settimana un discorso breve e molto importante per delineare quale sarà il percorso della stretta monetaria negli USA. Ha confermato che l’obiettivo principale dell’istituto sarà di riportare l’inflazione americana al target del 2% dall’8,5% di luglio. Per farlo, ha spiegato, ha già preso in considerazione un certo impatto negativo sulla prima economia mondiale. L’alternativa, ha precisato, sarebbe più dolorosa per la stessa.

Egli ha fatto presente che nel 1979 l’allora governatore Paul Volcker sostenne che “l’inflazione in parte di autoalimenta, per cui parte del lavoro per tornare a un’economia più stabile e produttiva consiste nel controllare le aspettative d’inflazione”. E “più l’inflazione perdura, maggiori le probabilità che attecchiscano aspettative d’inflazione più alte”. Un discorso molto da “falco”, contrariamente alle speranze di parte del mercato, che cerca un qualche appiglio per tornare a comprare azioni sull’attesa di una stretta sui tassi FED meno intensa.

Tempesta perfetta per l’euro

La FED ha alzato già i tassi d’interesse quattro volte quest’anno: di 25 punti base (0,25%) a marzo, 50 ad aprile e 75 sia a giugno che a luglio.

Li ha così portati al 2,50% e, a questo punto, a settembre dovrebbe alzarli ancora al 3,25%. Nel frattempo sta già diminuendo il bilancio dai 9.000 miliardi di dollari a cui era arrivato nella primavera scorsa. Con queste mosse, il dollaro si è rafforzato mediamente contro le principali valute mondiali del 13% quest’anno. Il cambio euro-dollaro è sceso sotto la parità per la prima volta in venti anni. Dopo il discorso di Powell, possiamo affermare che non sarebbe finita.

La BCE ha dinnanzi a sé due strade: ignorare le parole pronunciate dal primo governatore centrale nel mondo o reagire inasprendo la propria retorica “hawkish”. Nel primo caso, il cambio euro-dollaro collasserebbe ulteriormente, accentuando l’inflazione tramite l’aumento dei costi per i prodotti importati. Nel secondo caso, a restare vittime della linea più dura di Francoforte sarebbero i titoli di stato italiani. In assenza di un vero scudo anti-spread illimitato, automatico e incondizionato, un rialzo dei tassi più veloce sarà percepito sui mercati come un contraccolpo duro per le finanze dei paesi del Sud Europa particolarmente indebitati. E ciò spingerà i fondi speculativi a vendere BTp e Bonos.

BCE al bivio tra inflazione e crisi economica

Sta già accadendo da mesi, tant’è che il Financial Times ha pubblicato un articolo nei giorni scorsi, in cui fa presente che vi sarebbero vendite allo scoperto ai danni dei BTp per 39 miliardi di euro, mai così tante dal 2008. Una tempesta perfetta per l’Eurozona, alle prese con alta inflazione, rallentamento dell’economia e crisi energetica. Qualunque cosa faccia, Lagarde rischia di sbagliare. E a rimetterci le penne sarebbero famiglie e imprese, se non gli stessi governi. L’euro è più a rischio che mai rispetto all’ultimo decennio. Powell ha spento quel barlume di speranza che ancora dimorava nell’Eurozona circa la mancata necessità di inasprire più velocemente le condizioni monetarie.

Ma senza un intervento deciso al board di settembre, la BCE potrebbe perdere il controllo della stabilità dei prezzi e, ancor prima, la sua credibilità.

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