Le azioni MPS sono crollate ieri del 10,6% a 1,35 euro, scendendo ai minimi da novembre e trascinando al ribasso tutto il comparto bancario a Piazza Affari, il quale ha perso l’1,70%. Cos’è successo? La Vigilanza della BCE ha inviato a Rocca Salimbeni le raccomandazioni sullo Srep 2019, attraverso le quali ha fatto sapere di puntare per la banca senese a un CET 1 all’11%, invariato rispetto ai requisiti patrimoniali dello scorso anno. Tutto bene, almeno fino a quando non si è appreso di avere sollecitato anche la copertura integrale dei crediti deteriorati, pregressi inclusi, entro 2 anni per la parte non garantita ed entro 7 anni per quella garantita.

Si è trattato, dunque, di un rafforzamento del cosiddetto “addendum”, varato lo scorso anno e che il Consiglio d’Europa aveva ammorbidito nella sua portata, allungando i tempi entro cui coprire gli NPL, rendendo efficace la riforma dalla data della sua entrata in vigore e distinguendo tra garanzie “movable” e di altro tipo. Nel caso di MPS, invece, la Vigilanza di Francoforte vorrebbe imporre le regole più restrittive ipotizzate alla fine del 2017, quando si era diffusa la voce che la BCE stesse per introdurre una riforma valida anche per i crediti deteriorati già accumulati, non solo per quelli nuovi.

Crediti deteriorati (NPL), il fardello da centinaia di miliardi sui conti delle banche italiane

All’aprile scorso, MPS deteneva NPL per un controvalore lordo di 19,8 miliardi di euro, coperti al 56% dalle svalutazioni effettuate. Al netto, quindi, restano da coprire perdite massime potenziali per 8,7 miliardi di euro, che sarebbe il valore da accantonare a capitale entro un massimo di 7 anni, senza tenere conto dei nuovi NPL, quelli cioè iscritti a bilancio sin dal secondo trimestre dello scorso anno e sui quali dovranno effettuarsi, ovviamente, ulteriori accantonamenti sulla base della nuova disciplina.

Naturale che il titolo sia precipitato in borsa, considerando che l’istituto capitalizzi appena 1,7 miliardi.

In pratica, l’azzeramento di tutti gli NPL a tappe forzate costringerà la banca senese ad assorbire capitale per un valore di oltre 5 volte quello di borsa da qui al 2026. Una follia, che ha un nome e un cognome: Andrea Enria. Vi ricordate quando scrivevamo che non sarebbe stato di certo un italiano alla guida della Vigilanza ad assicurarci “protezione” per le banche tricolori sul piano dell’applicazione delle regole? E’ bastato attendere qualche mese.

Andrea Enria, l’italiano che picchia duro sulle banche italiane

Facciamo un passo indietro. Chi è Enria? Trattasi di un banchiere ligure, già a capo della European Banking Authority (EBA), la stessa che nel 2011 aggravò la già seria crisi dello spread, allorquando impose alle nostre banche di valutare i titoli di stato in portafoglio al loro valore “mark-to-market” riferito al 30 settembre di quell’anno. Il mercato reagì scomposto, ovvero vendendo a pioggia i nostri BTp, in quanto avvertiti non solo più rischiosi degli altri bond sovrani per effetto della sfiducia che si respirava sull’euro, bensì pure più costosi, dato che possederli esponeva a perdite anche solo virtuali, ma da iscrivere a bilancio. In più, gli investitori sospettarono che tale imposizione riflettesse l’effettivo rischio di ristrutturazione del debito pubblico italiano. Insomma, un disastro voluto da Francia e Germania e che Enria non evitò, anzi eseguì senza tentennare.

Un italiano alla Vigilanza BCE per difendere le nostre banche? Con i BTp ci andò male

Quando nell’autunno scorso si dovette procedere a scegliere il successore della tragica Danièle Nouy, a capo della Vigilanza della BCE ed espressione di quella linea dura sull’abbattimento degli NPL, che tanti danni ha provocato al nostro sistema bancario, il nome di Enria saltò fuori non già per volere del governo Conte, quanto per Mario Draghi, l’attuale governatore della BCE.

Anzi, il nome di Enria non fu nemmeno sostenuto con convinzione dall’Italia, tanto che l’eurodeputato leghista Marco Zanni, al momento del voto in Commissione affari finanziari di Strasburgo, si assentò, con il risultato che l’italiano ottenne le stesse preferenze del vice-governatore della Banca d’Irlanda, Sharon Donnery. Alla fine, la spuntò su indicazione proprio della BCE e la plenaria dell’Europarlamento lo elesse a larghissima maggioranza.

Dietro alle prime mosse di Enria potremmo leggervi il sospetto di una “vendetta” contro il governo italiano, reo di non averlo appoggiato nella corsa alla guida della Vigilanza? Prima di rispondere alla domanda, bisogna premettere che le istituzioni europee rappresentano tutti gli stati membri e non dovrebbero mai favorire qualche stato, magari sulla base della nazionalità di chi le presiede. Questa è la teoria e, se vogliamo, la perfezione a cui dovremmo tendere. Lo stato delle cose, invece, è molto diverso, tant’è che nell’individuare chi debba guidare cosa, il criterio principale è quasi sempre quello della nazionalità, per cui se il governatore della BCE è del Nord Europa, il vice deve essere del sud; se la Vigilanza va a un italiano, il Sud Europa non potrebbe prendersi anche il consigliere esecutivo di Francoforte, etc.

Il rischio di una nuova crisi bancaria

Nel caso delle banche, la “sensibilità” verso argomentazioni nell’uno o nell’altro senso risente parecchio della carta d’identità di chi scrive le regole. Il caso MPS, ad esempio, rischia di trascinare a fondo il comparto bancario a Milano, perché segnala una possibile applicazione dell'”addendum” caso per caso e potenzialmente nella versione più restrittiva per tutte le banche italiane. Il Nord Europa non ha problemi di NPL e per due ragioni: i crediti sono più a rischio laddove le economie si mostrano più deboli e imprese e famiglie hanno maggiori difficoltà a onorare i debiti contratti; il resto del continente ha salvato le banche con centinaia di miliardi di euro pubblici, a partire dalla Germania, quando il “bail-in” nemmeno esisteva come concetto e gli aiuti di stato venivano dati per scontati per impedire il collasso di questa o di quella banca.

L’Italia, che da questo punto di vista si mostrò virtuosa dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, adesso paga proprio per questo.

C’è di più. Enria sarà chiamato verosimilmente nei prossimi mesi a decidere anche sui criteri da applicare in merito alla detenzione dei titoli di stato a bilancio. Le banche italiane posseggono BTp per circa 380 miliardi di euro, qualcosa come il 10% dei loro patrimoni, una percentuale considerata troppo alta dai regolatori europei, i quali su pressione della Bundesbank vorrebbero rescindere il legame “incestuoso” tra istituti e governi. Come? Due le soluzioni propinate dai tedeschi: imporre un limite quantitativo detenibile, in rapporto al patrimonio bancario; costringere le banche ad accantonare un minimo di capitale per i bond acquistati, similmente a quanto avvenga con qualsiasi altra forma di finanziamento ai privati. La fine della disparità di regole, nelle intenzioni, spingerebbe le banche a prestare più denaro all’economia reale e meno ai governi, con questi ultimi riportati alla disciplina fiscale da parte del mercato. In pratica, i titoli di stato non sarebbero più valutati “risk free”, cosa che rischia di riportarci al caso del 2011 sopra descritto.

Le banche italiane ci salveranno dallo spread, facendosi un favore

Le regole non sono uguali per tutti

Aldilà dei castelli costruiti in aria, se si mettesse mano alla revisione delle regole sui titoli di stato, l’Italia rischierebbe di rimanere senza il suo attuale principale cliente per le emissioni sovrane. Ora che la BCE ha cessato gli acquisti di bond con il “quantitative easing”, significherebbe spread alle stelle, costi di rifinanziamento in rapida ascesa e conti pubblici alla deriva, non certo risanati. Il problema sta in chi concepisce tali regole, che non appartenendo a economie esposte a tali rischi, non è sensibile ai problemi. Del resto, è sotto gli occhi di tutti il disastro compiuto negli anni passati con il “bail-in”, che da sogno di un’Europa al riparo dai salvataggi pubblici delle banche si è trasformato nell’incubo di banche che provocano perdite a carico di investitori, i quali avevano puntato i loro quattrini sulla base di un quadro normativo assai diverso.

Enria è stato eletto alla Vigilanza per una ragione specifica: è un italiano che non risponde al governo di Roma, bensì al rassicurante Draghi. Con ciò, il nostro Paese è stato formalmente accontentato nella spartizione delle poltrone europee più importanti, quando di fatto non aveva nemmeno richiesto di ottenere tale carica. E nessuno potrà mai accusare un italiano di essere ostile agli interessi delle banche della sua stessa nazione, sebbene gli atti concreti dimostrerebbero il contrario sin dai tempi dell’EBA. E da qui alla degenerazione in una nuova crisi bancaria italiana il passo sarebbe brevissimo.

Con Carige commissariata e MPS nazionalizzata da due anni, servono soluzioni strutturali, ossia la rilevazione di tali istituti da parte di qualcuno più solido e grande, come Unicredit. E, tuttavia, nessuno a Piazza Gae Aulenti si sognerebbe di prendersi in carico dossier scottanti, se persino la Vigilanza sembri accanirsi con l’imposizione di criteri assurdamente penalizzanti nella gestione di una mole non indifferente di crediti a rischio. Tutto questo, mentre il cuore del sistema bancario tedesco – le Landesbanken – sfugge ai controlli europei, avendo la Germania strappato dalla Vigilanza requisiti tali da continuare a farlo soggiacere alle lenti nazionali. Quando si dice “fate quello che vi dico, non quello che faccio io”.

Sulle banche italiane è in arrivo una doppia mazzata su NPL e bond

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