Ah, se ci fosse la lira! In quest’ultimo decennio di crisi e di euro-scetticismo dilagante, abbiamo sentito pronunciare chissà quante volte questa frase e da chissà quante persone. E’ radicata la convinzione in Italia che quando avevamo la nostra moneta nazionale, le imprese esportassero di più. In realtà, tutti i dati ci dicono il contrario, cioè che paradossalmente l’Italia sia diventata un’economia esportatrice a partire dagli anni Novanta e più stabilmente negli ultimi anni. Secondo la vulgata comune, però, il cambio euro-dollaro sarebbe troppo forte per la nostra economia.

E’ così? Cerchiamo di scoprirlo. Ed è importante, dato che parliamo del cross valutario più significativo al mondo, di fatto un’approssimazione dell’andamento dei tassi di cambio dell’euro contro tutte le altre principali divise mondiali.

Cambio euro-dollaro a 1,20, per il Big Mac salirà a 1,35

Dobbiamo tornare indietro al 1971. Quell’anno, l’amministrazione americana di Richard Nixon sganciò il dollaro dall’oro, annunciando agli stati alleati del blocco occidentale che non avrebbe potuto più garantire la convertibilità del biglietto verde in lingotti. L’ordine monetario messo in piedi sin dal 1944 con il cosiddetto Accordo di Bretton Woods crollò all’istante e le monete nazionali, che fino ad allora erano state fissate contro il dollaro, iniziarono ad oscillare l’una contro le altre sulla base della legge della domanda e dell’offerta.

Quale cambio per l’Italia

In economia, per valutare se le variazioni dei tassi di cambio tra una coppia di valute siano giustificate o meno, si guarda al differenziale d’inflazione tra i due stati. Qual è il principio? La domanda di una valuta riflette le esportazioni di uno stato, le quali dipendono a loro volta dalla relativa convenienza di beni e servizi prodotti, cioè dai prezzi. Quando un’economia registra tassi d’inflazione più elevati di un’altra, tende a perdere competitività, cioè ad esportare di meno.

Ne consegue che il suo cambio s’indebolisce. Questo ragionamento trova due principali limitazioni: non tutti i beni e servizi sono “tradable”, cioè esportabili. Si pensi al taglio di capelli o alle prestazioni di un’estetista. Se i due servizi rincarano, non si avrebbero riflessi sul cambio. Secondariamente, le variazioni dei cambi con la globalizzazione dipendono sempre più anche dai flussi dei capitali, che spesso ignorano le dinamiche commerciali, specie nel breve termine.

Tornando al fatidico 1971, per un dollaro occorrevano allora 623 lire. Da allora, sono passati 50 anni. In questo mezzo secolo, sia gli USA che l’Italia hanno cumulato elevati tassi d’inflazione. Considerate che 100 dollari di allora varrebbero oggi 15,55 dollari, mentre 100 lire appena 5,74. Infatti, gli USA hanno registrato un’inflazione cumulata del 543%, l’Italia del 1.642%. Il differenziale d’inflazione è stato, quindi, di circa il 1.100% a favore degli USA. L’inflazione media annua americana è stata, infatti, del 3,8%, quella italiana del 5,9%. Moltiplicando il cambio di 623 per quel 2% abbondante di differenza elevato per 50 anni si otterrebbe un cambio di 1.760 lire contro un dollaro, poco più dei 1.700 a cui eravamo arrivati a fine 1998, prima di passare all’euro. Esso equivarrebbe a poco più di 90 centesimi di euro (un dollaro dovrebbe comprare meno di un euro-lira). Dunque, seguendo il ragionamento di cui sopra, oggi come oggi dovremmo avere un cambio di 1,10 contro il dollaro, anziché di circa 1,20 euro come nelle ultime sedute. Ciò significa che l’euro per i fondamentali macro dell’Italia, pur con tutti i limiti sopra evidenziati, risulterebbe sopravvalutato di quasi il 10%. Avrebbero, dunque, ragione coloro che credono che avremmo bisogno di una valuta più debole per commerciare con l’estero. Resta il fatto che ogni anno esportiamo verso gli USA quasi 60 miliardi di dollari e ricaviamo una trentina di miliardi di surplus, la metà del totale.

E con l’euro.

L’euro non è la causa della crisi italiana, ecco perché tornare alla lira non serve

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