Se si andasse a votare oggi, i Verdi in Germania prenderebbero il 19% dei consensi contro il 28% dei cristiano-democratici. Alla fine di aprile, i primi erano accreditati del 28% contro il 22% dei conservatori. In poche settimane, non solo il vantaggio sarebbe del tutto svanito, ma il partito degli ambientalisti tedeschi rischia di finire terzo, essendo al momento insidiato dai socialdemocratici dell’SPD al 17%. Questi sono gli ultimi dati INSA, dopo che sembrava che dalle elezioni federali di settembre sarebbe emersa la prima cancelleria dei Verdi.

Non è la prima volta che la formazione oggi guidata da Annalena Baerbock registri un boom di consensi. Accadde nel 2011, all’indomani dell’incidente nucleare alla centrale di Fukushima in Giappone. Ma due anni più tardi, ottennero appena l’8,4%. Il risultato tra tre mesi sarebbe nettamente più entusiasmante, ma ciò non toglie che i Verdi non saranno con ogni probabilità il partito più votato dagli elettori tedeschi. E questo, malgrado l’assenza di appeal dei due candidati principali in corsa per la cancelleria.

Nell’era di Greta Thunberg, sembra curioso che un partito ambientalista non riesca ad imporre la propria agenda politica da nessuna parte, dovendo ricorrere alla pressione mediatica diffusa per far parlare dei propri temi. Eppure, non lo è. Tutti ci ricordiamo cosa accadde in Francia prima del Covid. Per oltre un anno, le strade di Parigi (e non solo) furono messe a soqquadro dai cosiddetti “gilet gialli”, un gruppo di protesta insorto contro il tentativo del presidente Emmanuel Macron di alzare il prezzo del carburante per combattere l’inquinamento e, molto più prosaicamente, per fare cassa.

Le ragioni del crollo dei Verdi

Il tracollo dei Verdi tedeschi nelle ultime settimane sarebbe legato alle stesse motivazioni. Fintantoché di ambientalismo se ne parli come di idealità generiche, i consensi appaiono plebiscitari. Anzi, dai media traspare quasi una sorta di dittatura del pensiero unico.

Guai a chi osi mettere in discussione le corbellerie à la Greta o a eccepire che le sacrosante ragioni dell’ambiente vadano rese compatibili con quelle dell’economia. I governi rifuggono da analisi complesse, offrendo in pasto all’opinione pubblica soluzioni facili, pur profondamente ipocrite.

Ma quando la prospettiva di un’agenda “green” si concretizza, ecco che gli elettori si mostrano molto meno intenti ad accettarla passivamente. I tedeschi saranno stati terrorizzati dai sondaggi di primavera nel fiutare il rischio di una cancelliera ambientalista. La prima economia europea deve ancora oggi parte della ricchezza alle miniere di carbone, all’uso del diesel e, in generale, a produzioni inquinanti. I tedeschi sono sinceramente difensori dell’ambiente, ma posseggono quell’innato senso pratico per capire che non si possa smantellare un modus vivendi dalla mattina alla sera senza distruggere un’intera economia.

Se i sondaggi avranno ragione, i Verdi saranno tutt’al più junior partner dei conservatori al prossimo governo federale e probabilmente insieme anche ai liberali dell’FDP, i quali si presentano tradizionalmente con una spiccata agenda pro-business. In soldoni, dovranno annacquare le loro istanze ambientaliste per poter tornare al governo dopo 16 anni. L’ultima volta lo furono con l’SPD di Gerhard Schroeder, che dopo avere dismesso i panni da cancelliere è entrato nel board di Rosneft, colosso russo del gas. Altro che agenda ambientalista! E dire che senza il Nord Europa con la pancia piena, i Verdi non abbiano alcuna chance di imporsi alle elezioni. Malgrado i recenti boom in giro per il continente, restano una formazione percepita ostile alla salvaguardia dell’economia. E in tempi di ricostruzione post-Covid, nessuno vuole rischiare di ritrovarseli alla guida di un qualche governo che conti.

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