L’Italia si è presentata all’appuntamento imprevisto e imprevedibile con l’emergenza Covid in condizioni sanitarie non ottimali, specie sul piano organizzativo. Quando a marzo è arrivata la pandemia, governo e regioni si sono affrettati ad aumentare i posti letto in terapia intensiva, risultati largamente insufficienti rispetto alle nuove necessità e in relazione ai numeri medi vigenti nell’Unione Europea, rapportati alla popolazione. Da allora, di passi in avanti ne abbiamo compiuti pochi, come stiamo scoprendo in queste settimane di nuovi lockdown.

I posti letto sono aumentati meno della metà dell’obiettivo e tra stato centrale e regioni è un quotidiano rimpallo di responsabilità.

Per fortuna, non siamo gli unici ad avere offerto uno spettacolo imbarazzante al mondo. Ciò non toglie che la sanità italiana, che pensavamo essere quasi imbattibile nelle classifiche internazionali, si stia rivelando ben lungi dall’esserlo, specie nel Meridione, dove al minimo raffreddore si rischia il collasso delle strutture ospedaliere. Sin dall’inizio della pandemia, la stampa ha parlato di tagli alla sanità per 37 miliardi di euro negli ultimi 10 anni. Cosa c’è di vero?

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La riforma costituzionale del 2001

Anzitutto, l’organizzazione della sanità è stata ceduta alle regioni con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. La maggioranza di centro-sinistra di allora approvò il passaggio storico in solitudine e con soli quattro voti di scarto in Parlamento. L’obiettivo era di contenere la forza elettorale della Lega Nord, che in quegli anni si batteva per un forte federalismo, ribattezzato con il termine anglosassone “devolution”. Per molti analisti, quello fu un peccato originale da cui seguirono tantissimi errori.

Nel 2001, la spesa sanitaria italiana era di 71,3 miliardi, pari al 5,5% del PIL. Nel 2019, risultava salita a 114,5 miliardi, il 6,4% del PIL. In valore assoluto, è cresciuta di oltre il 60%. Al netto della stessa inflazione nel periodo, si è avuto un incremento del 28%.

In teoria, non potremmo affermare che la spesa sanitaria dopo la riforma sia stata tagliata. Ma l’andamento è stato tutt’altro che lineare in questo arco di tempo. Ad esempio, nel decennio 2010-’19 è cresciuta di 8,9 miliardi, pari al +8,4%, meno dell’inflazione cumulata del 9,7%. Questo significa che, in termini reali, la sanità ha subito un piccolo taglio, seppure apparentemente insufficiente per farci gridare allo scandalo.

In verità, la sanità è un settore che richiede investimenti massicci per restare al passo con l’evoluzione tecnologica e delle conoscenze. Tipicamente, la sua spesa tende a crescere ben oltre l’inflazione. Capite benissimo, quindi, che il fatto che sia cresciuta di meno sia di per sé un guaio, perché significa che lo stato abbia sotto-investito. E così è stato. Nel 2011, il governo Monti taglia 25 miliardi di investimenti sanitari per il successivo triennio. Tra il 2015 e il 2019, i governi di centro-sinistra a guida Matteo Renzi e Paolo Gentiloni proseguono con altri 12 miliardi. Bisognava mettere i conti pubblici in ordine e la sanità è parsa il limone da spremere allo scopo. I risultati di questi tagli non si sono visti all’istante e ciò ha consentito alla politica di nascondersi dietro una foglia di fico.

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Quali voci di spesa sono state tagliate

Peraltro, a fronte di una spesa in assoluto costante, il numero degli over 65 in Italia lievitava di 3 milioni di persone dal 2001. E la popolazione più anziana è quella più bisognosa di cure, ergo anche la più costosa per la sanità. Dunque, aumentano i pazienti, non anche l’offerta del Servizio Sanitario Nazionale. Soprattutto al sud, dove le risorse stanziate dal governo sono minori, legate in parte al gettito Irap, abbiamo così assistito a piccoli ospedali chiusi, tempi di attesa biblici per una visita diagnostica o per un ricovero, posti letto improvvisati nei corridoi dei pronto soccorso, casi di malasanità sempre più frequenti.

In particolare, su quali voci di spesa i governi hanno risparmiato? Guardando alla composizione tra il 2002 e il 2018, scopriamo che la massa degli stipendi sia cresciuta da meno di 30 a quasi 35 miliardi, ma scendendo dal 36,9% al 30,8% del totale e, comunque, non ha minimamente tenuto il passo con l’inflazione. Gli stipendi di medici e infermieri non sono stati tagliati formalmente, semmai non sono stati adeguati al 100% all’aumento dei prezzi. Non ci sono stati licenziamenti, ma neppure nuove assunzioni, a causa del blocco del turn over. Altra voce in calo quella dei farmaci convenzionati: dal 14,7% al 6,6%. In valore assoluto, la spesa è scesa da 11,1 a 7,5 miliardi. Quanto ai posti letto, tra il 2001 e 2016 risultano diminuiti nell’area medica da 105 a 75 mila, nell’area chirurgica da 95 a 65 mila, nell’area materno-infantile da 40 a 25 mila, nell’area psichiatrica da circa 22 a 7 mila, mentre sono aumentati di poco per terapie intensive e lungo-degenze.

Balzati, invece, i consumi intermedi dal 19% al 29,1%, cioè da 14,4 a 33 miliardi. E quest’ultima voce risente proprio dei prezzi dei beni e dei servizi acquistati, i quali sono legati all’andamento del mercato e, pertanto, risultano poco comprimibili. E in essa che si annidano i veri sprechi, con regioni che in passato hanno acquistato spesso anche a prezzi nettamente diversi tra loro, segno sia del minore potere negoziale dei singoli enti locali, sia delle connivenze persino palesemente illegali tra politica e affari. Non a caso, da qualche anno gli acquisti sono tornati ad essere accentrati dalla centrale unica dello stato, al fine di mitigare prezzi e ruberie, queste ultime dilagate ai danni dei contribuenti negli ultimi venti anni, portando a inefficienze e alla necessità dei governi di tagliare per porre un argine alla spesa. Con tutti gli effetti che ne sono conseguiti.

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