Ha fatto scalpore nei giorni scorsi il crollo in borsa di Meta, nuova denominazione societaria di Facebook. In una sola seduta, ha “bruciato” 80 miliardi di dollari. Nulla, se si considera che solamente quest’anno il social è crollato di ben 660 miliardi, scendendo a una capitalizzazione di “soli” 240 miliardi. A farne le spese è stato il fondatore e azionista di riferimento Mark Zuckerberg. Da terzo uomo più ricco del pianeta è scivolato in posizione 23. Non farà la fame, ma a quei livelli le gelosie tra miliardari sono forti.

Ad ogni modo, la crisi in borsa di Meta è tutt’altro che isolata. Essa riguarda l’intero indice FAANG, come da anni sono note impropriamente le azioni dei grandi colossi tech della Silicon Valley.

FAANG è un acronimo che sta per Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google. E’ diventato un po’ la spia del ripiegamento della borsa americana. L’indice S&P 500 ha perso quest’anno quasi il 22%. Molto peggio è andato proprio ai colossi, che all’inizio di questo 2022 valevano complessivamente quasi 7.800 miliardi di dollari. E già i cali erano partiti qualche mese prima, quando le azioni FAANG avevano raggiunto tutte i rispettivi apici. Al termine della seduta di ieri, perdevano poco meno di 3.000 miliardi.

Il crollo è arrivato dopo numerosi anni di corsa apparentemente inarrestabile. Dalla fine della recessione provocata dalla Grande Crisi Globale del 2008 – siamo agli inizi del 2009 – le azioni Apple erano esplose del 5.500%, Amazon del 5.700%, Alphabet (Google) del 1.600%, Netflix del 1.200% e, infine, Meta del 900% dalla sua IPO del maggio 2012. Non vi sfuggirà che questo boom era avvenuto negli anni del “quantitative easing”, cioè di tassi d’interesse bassissimi, perlopiù negativi in termini reali.

FAANG in crisi con rialzo dei tassi

La stretta monetaria globale di questi mesi ha particolarmente colpito le quotazioni dei FAANG, riducendo sia la propensione al rischio che le attività finanziarie speculative.

Resta indubbio che la crescita delle azioni fosse in gran parte legata ai fondamentali. Malgrado elevati rapporti tra prezzi e utili, il mercato aveva per molto tempo comprato le prospettive di crescita future di colossi attivi in nuovi comparti dell’economia come Amazon, tanto per citare l’esempio più illustre.

Ma altrettanto indubbia è stata la bolla che si era alimentata attorno a questi titoli. Investitori individuali, istituzionali e persino banche centrali come la BNS svizzera compravano confidando sulla risalita ulteriore dei prezzi. L’incantesimo sembra essersi spezzato. Le azioni FAANG restano appetibili, anche perché le società che compongono questo listino virtuale sono ricche di liquidità. Tuttavia, l’era delle certezze sembra essersi conclusa. Non solo il costo del denaro da prendere in prestito per comprare asset finanziari è salito. La globalizzazione ha raggiunto il picco e già si notano crescenti restrizioni ai commerci globali tra pandemia e tensioni geopolitiche.

I colossi FAANG sono prosperati in un ambiente di massima libertà per le relazioni commerciali e finanziarie. Apple ha potuto produrre telefonini in Cina per rivenderli a caro prezzo nel resto del mondo, così come Amazon ha travolto la concorrenza dei negozi fisici stato dopo stato. Ma all’orizzonte s’intravede la nascita di nuove realtà concorrenti. Basti pensare ai danni che Tik Tok sta infliggendo a Meta, attirando le iscrizioni dei più giovani. Questo non significa che il successo delle FAANG sia alle spalle. Semplicemente, nessuno poteva immaginare che avrebbero perso 3.000 miliardi in pochi mesi. Grosso modo quanto il PIL di Italia e Olanda messe insieme.

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