Giorgia Meloni lavora al suo governo, il cui battesimo dovrebbe tenersi entro la terza settimana di ottobre. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intende accelerare i tempi entro i limiti fissati dalla Costituzione. C’è una guerra in Europa, la crisi energetica da affrontare e il caro bollette a cui rimediare. Ed entro novembre va inviata a Bruxelles la legge di Bilancio per il 2023. Tempi strettissimi, insomma. I partiti del centro-destra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) stanno trattando sull’assegnazione dei ministeri.

Dovrebbero andarne quattro a testa al partito di Matteo Salvini e a quello di Silvio Berlusconi. Quest’ultimo, poi, sta opponendosi alla linea della premier in pectore di nominare a capo di dicasteri di peso tecnici, anziché politici.

Sappiamo che continua il pressing su Fabio Panetta, consigliere esecutivo della BCE, per fargli accettare la nomina a ministro dell’Economia. L’idea sarebbe di rendere il governo Meloni inattaccabile sul piano delle competenze e dell’autorevolezza. Fratelli d’Italia non vuole imitare in nulla l’esperienza dell’alleato leghista nel primo governo Conte, quando tra nomine e competenze opinabili, l’esecutivo si trovò attaccato in patria e all’estero praticamente da tutti.

Il ricorso ai tecnici non è prerogativa italiana. Ad esempio, il segretario al Tesoro dell’amministrazione Biden è oggi Janet Yellen, ex governatore della Federal Reserve. A precederla vi era stato Steven Mnuchin, un banchiere che nel 2017 l’allora presidente Donald Trump volle per mettere in pratica la sua politica economica. E’ indubbio, però, che la “tecnocrazia” sia diventata nel nostro Paese un caso patologico, un modo per i partiti di non assumersi direttamente le proprie responsabilità nella gestione dei conti pubblici.

Tecnico all’Economia anche nel governo Meloni?

Dall’inizio del millennio ad oggi, di ministri dell’Economia ne abbiamo avuti ben undici. E sapete quanti di loro sono stati politici? Appena tre.

Parliamo di Vincenzo Visco nel secondo governo Amato (2000-2001), di Giulio Tremonti nei governi Berlusconi II, III e IV (2001-2003, 2004-2006, 2008-2011) e Roberto Gualtieri nel secondo governo Conte (2019-2021). Gli altri otto sono stati tecnici arrivati perlopiù dal mondo delle banche:

  • Domenico Siniscalco (2003-2004);
  • Tommaso Padoa Schioppa (2006-2008);
  • Mario Monti (2011-2012);
  • Vittorio Grilli (2012-2013);
  • Fabrizio Saccomanni (2013-2014);
  • Pier Carlo Padoan (2014-2018);
  • Giovanni Tria (2018-2019);
  • Daniele Franco (2021-oggi).

Tecnocrazia patologia italiana

In altre parole, solamente all’incirca un ministro dell’Economia su quattro è stato un politico negli ultimi due decenni e passa. Il governo Meloni sarebbe in perfetta continuità con questa ormai consuetudine istituzionale. E non è stato casuale in questi decenni. Governi deboli hanno generalmente richiesto tecnici autorevoli per ottenere la benedizione di mercati finanziari e cancellerie europee. Come se i partiti, nel momento in cui formano un governo, decidessero automaticamente di sottoporsi a un commissariamento interno allo stesso esecutivo per risultare un tantino credibili.

In Germania, ricoprire la posizione prestigiosa di ministro delle Finanze significa fare a gara con tutti gli altri pretendenti dello stesso partito o del partito alleato. Da quello scranno si detta la linea sui conti pubblici a tutta l’Unione Europea. D’altra parte, parliamo di un’economia poco indebitata e con finanze statali in pareggio o attivo negli anni non di crisi. In sostanza, lì c’è da gestire la “ciccia”. Da noi, c’è l’incombenza di gestire l’enorme mole di debiti che di volta in volta ciascun ministro lascia in eredità al successivo. E i partiti vogliono lavarsene le mani, consapevoli che le loro promesse elettorali siano state il più delle volte irrealistiche e che far dire tanti “no” a un tecnico li sottrae nell’immediato alle ire delle categorie “tradite”.

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