L’Italia è affollata dalle vedove inconsolabili di Mario Draghi. Passerà, così come fecero la loro scomparsa le “bimbe di Conte” un anno e mezzo fa. Perché gli italiani siamo così. Il governo è caduto ieri sera dopo una giornata che fino ad allora era stata piuttosto indecifrabile. La crisi della maggioranza, però, ha cause ben precise. E ci sarebbero stati ben cinque errori grossolani commessi dal premier, i quali l’avrebbero provocata progressivamente.

Primo errore: nonno al servizio delle istituzioni

Siamo nel dicembre 2021.

Alla conferenza stampa di fine anno, Draghi risponde a una domanda sul suo imminente destino politico. Ci sarebbero state le elezioni per il presidente della Repubblica un mese dopo. Il premier si autodefinisce “un nonno al servizio delle istituzioni”. Mai nessuno nella storia repubblica si era autocandidato per il Quirinale. I partiti della sua stessa maggioranza presero quella frase a pretesto per insinuare che l’ex banchiere centrale non avesse granché rispetto del Parlamento e dei meccanismi istituzionali nostrani. Il nome di Draghi neppure comparirà mai tra i candidati oggetto di trattative tra i gruppi per l’elezione.

Secondo errore: la scissione di Di Maio

L’addio di Luigi Di Maio e una folta pattuglia di parlamentari al Movimento 5 Stelle può considerarsi a tutti gli effetti la miccia che ha acceso i fuochi nella maggioranza. Giuseppe Conte si è irritato al punto da meditare sin dal giorno dopo vendetta contro il governo Draghi. Le elezioni anticipate, dal suo punto di vista, sarebbero un modo per “uccidere” politicamente in culla il suo ex vice-premier. Quale sarebbe stata la colpa del premier Draghi? Avere avallato la scissione dietro le quinte. Non esistono certezze sul punto, ma la ricostruzione del sociologo Domenico De Masi, secondo cui avrebbe chiesto a Beppe Grillo durante una conversazione telefonica di far fuori Conte da leader dell’M5S andrebbe in questa direzione.

Terzo errore: incontro “segreto” con Letta

Nella giornata di mercoledì, le chance del governo Draghi di ottenere la fiducia del Parlamento sono elevate. Il premier aveva fatto presente il giorno prima che non avrebbe incontrato alcun leader della maggioranza. Invece, si apprende che segretamente di mattina avesse incontrato il segretario del PD, Enrico Letta, prima di salire al Quirinale per tenere un colloquio con il capo dello stato. A quel punto, nel centro-destra sorge il dubbio che la crisi sia gestita tutta a sinistra. Esternata l’irritazione e ottenuto un incontro a Palazzo Chigi, cresce la diffidenza della coalizione verso il premier.

Quarto errore: “gli italiani”

Nel suo discorso di giovedì mattina, il premier sostiene di avere avuto un ripensamento sulla sua decisione di rassegnare le dimissioni, in quanto “me lo hanno chiesto gli italiani”. Il riferimento è al movimento di opinione tra sindaci, rettori universitari, giornalisti, ecc., che gli ha chiesto di restare. Tuttavia, sul piano istituzionale l’unica voce con cui un popolo parla è quella delle elezioni. Questa parte del discorso è apparsa “populista” e persino arrogante nei riguardi del Parlamento. A farglielo notare è stato Pierferdinando Casini, il quale ha eccepito che questa narrazione farebbe il paio con quella del “governo eletto dal popolo”.

Quinto errore: mozione Casini

Dopo una replica piccata e dai toni un po’ sopra la righe, Draghi invita il Senato a votargli la fiducia approvando la mozione presentata da Casini. Tuttavia, il centro-destra aveva dichiarato qualche ora prima che avrebbe votato la fiducia solamente attraverso una propria mozione. Con questo passo, Draghi nei fatti impedisce alla parte della sua maggioranza di cui ha bisogno per restare alla guida di governo di votarlo.

In definitiva, ci sono stati errori vicini e lontani che hanno terremotato la maggioranza di governo. Ma i tre commessi proprio nelle ore della crisi lasciano pensare che il premier non avesse grande voglia di restare.

La sua insofferenza verso i partiti origina sin dalla mancata elezione a capo dello stato. La replica durissima di ieri pomeriggio al Movimento 5 Stelle sul Superbonus fa intendere che volesse di fatto essere sfiduciato da Conte, magari per ottenere credito a destra. Mal consigliato, però, decide di rendere tecnicamente indigesta anche la fiducia di Forza Italia e Lega. Insomma, qualche ingenuità di troppo di un tecnico prestato alla politica e avulso dai meccanismi di questa. E anche il dubbio che non abbia voluto darsi eccessivamente da fare per restare capo del governo.

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