“Non puoi dire che ciò che accade fuori dal tuo capannone non ti riguarda”. Con queste parole, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha anticipato in un’intervista rilasciata a La Repubblica la linea che il governo Draghi intende portare avanti riguardo ai lavoratori della cosiddetta “gig economy”. Secondo l’esponente del PD, multinazionali come Amazon non potranno lavarsi le mani rispetto alle tutele dei lavoratori nelle aziende fornitrici di piccole dimensioni. Dovranno essere considerate “responsabili”, ha rimarcato.

La posizione dell’Italia non è isolata su questo tema assai delicato.

La “gig economy” si traduce letteralmente come “economia dei lavoretti”. Parliamo di tutte quelle occupazioni per loro natura occasionali, pur non necessariamente, in cui la retribuzione del lavoratore è legata al risultato. Ad esempio, gli autisti di app come Uber o i fattorini che consegnano il cibo d’asporto nelle case dei clienti alle dipendenza di colossi come Just Eat. Il governo italiano ha già cercato in questi anni di affrontare il tema della precarietà di queste posizioni, pur con scarso successo.

Ebbene, anche l’amministrazione Biden punta a regolare questi lavoretti, rendendoli stabili. Questa è la posizione del segretario al Lavoro, Marty Walsh, di pieno sostegno ai sindacati del settore. Da quando una simile ipotesi ha iniziato a circolare negli ambienti governativi a fine aprile, le azioni Uber hanno perso il 15% e quelle di Just Eat di quasi il 20%.

Pro e contro della stretta sulla gig economy

I “gig workers” sono da anni un po’ in tutto il mondo ricco oggetto di dibattito. Da un lato, c’è chi ritiene che, trattandosi di lavoretti per sbarcare il lunario durante gli studi o in periodi di fiacca occupazionale o per arrotondare lo stipendio, non dovrebbero essere regolamentati come lavori ordinari. Anzi, secondo questa linea di pensiero, gli effetti di eventuali strette legislative sarebbero devastanti: dati gli scarsi margini tipici di questo settore, le aziende chiuderebbero e molti giovani perderebbero opportunità occupazionali in regola.

D’altra parte, siamo davvero sicuri che gli autisti o i fattorini occasionali puntino a farsi stabilizzare al lavoro, quando essi stessi per primi ritengono la loro esperienza passeggera? E la lievitazione dei costi non si scaricherà inevitabilmente sui clienti, cioè le famiglie?

Ma i critici nutrono parecchi dubbi circa la natura “autonoma” di questi lavoretti. Di fatto, non sarebbero tali. I “gig workers” risultano in toto alle dipendenze delle società per cui lavorano. E’ vero che non hanno vincoli di orario, ma l’uso di algoritmi consente alle società di escludere dalle chiamate tutti coloro che per una qualsiasi ragione si fossero rifiutati in passato di accettare un mandato. Ciò spinge i lavoratori inseriti nel database aziendale ad accettare richieste anche in orari scomodi o in località non agevoli da raggiungere dalla propria abitazione e/o per cifre risibili, pur di non rischiare di non essere più chiamati in futuro.

Un mercato complesso e che in questi giorni sta dividendo l’opinione pubblica e la politica in Grecia. Il governo conservatore del premier Kyriakos Mitsotakis ha fatto approvare una legge, che consentirà alle imprese di far lavorare i dipendenti fino a 10 ore al giorno. In cambio, il lavoratore avrà diritto a giorni di ferie compensative, non ad un aumento della retribuzione in forma di straordinario. Le opposizioni definiscono la misura “medievale” e annunciano battaglia e sostegno alle lotte sindacali già proclamate e in difesa della giornata lavorativa di 8 ore. D’altra parte, Atene sta cercando di rendere più flessibile il suo mercato del lavoro notoriamente ingessato e iper-sindacalizzato, attirando i fondi europei del Recovery Plan, nonché nuove opportunità occupazionali nell’era di internet e, per l’appunto, della “gig economy”.

Il dibattito non si concluderà certo nella cittadina etnea dopodomani.

[email protected]