Le quotazioni del Brent sono scese ieri sotto i 70 dollari al barile per la prima volta da 7 mesi, ossia da quando l’amministrazione Trump annunciava il ritiro dall’accordo sul nucleare con l’Iran e il ripristino delle sanzioni. In cinque settimane, il petrolio è passato da quasi 86 a meno di 70 dollari, perdendo circa il 19%. Sulle ragioni di tale tonfo abbiamo scritto nell’articolo propostovi giovedì, di cui il link sotto. Altre voci stanno aggravando la crisi dell’oro nero sui mercati, come lo studio lanciato da un think-tank di Riad e finanziato dalla monarchia saudita, teso a valutare gli effetti di una rottura dell’OPEC.

La notizia che l’Arabia Saudita starebbe pensando di uscire dal cartello del petrolio è stata smentita dalla stessa interessata, ma ciò non ha certamente frenato le speculazioni. Cosa sta succedendo di preciso?

L’America spiazza sauditi e russi sul petrolio e l’OPEC punta a difendere i 70 dollari al barile

I sauditi sono i principali esportatori di petrolio al mondo con circa 7,5 milioni di barili al giorno su una produzione complessiva di 10,5 milioni. Di fatto, sono i leader dell’OPEC, l’organizzazione di 15 stati esportatori e con sede a Vienna, che in tutto incide per un terzo dell’offerta mondiale. Dalla fine di novembre del 2016, un accordo tra gli stati membri e siglato anche con una dozzina di produttori esterni, tra cui la Russia, ha posto un limite alla produzione, tagliandola di 1,8 milioni di barili al giorno in tutto, rispetto ai livelli raggiunti nell’ottobre di due anni fa. L’accordo ha favorito la ripresa delle quotazioni, che in meno di un biennio sono arrivate a raddoppiare.

Tuttavia, le sanzioni contro l’Iran, che avevano preoccupato gli investitori, si stanno rivelando meno dure delle attese e la stessa Riad si è impegnata a compensare qualsivoglia calo delle esportazioni iraniane con un pari aumento della propria offerta.

I sauditi sostengono da anni di disporre di una capacità massima quotidiana superiore ai 12 milioni di barili, anche se tali livelli non sono mai stato testati. Sauditi e iraniani sono arci-nemici nel mondo mussulmano, con i primi a porsi alla guida dei sunniti, mentre i secondi rappresentano gli sciiti. Sul piano geo-politico, il regno è schierato con l’America e, in generale, con l’Occidente, mentre Teheran ha pessimi rapporti con Washington e poco migliori con l’Europa.

La fine vicina dell’OPEC?

Tra i due paesi si combatte da anni una serie di guerre indirette, come quella sanguinaria nello Yemen e la più nota e devastante in Siria. Le divisioni sono diventate così profonde, che appare difficile immaginare una loro convivenza pacifica all’interno di un’organizzazione, il cui fine sarebbe la salvaguardia degli interessi comuni. In fondo, l’accordo del 2016 fu trovato dopo due anni di pressioni da parte dei partner sull’Arabia Saudita, affinché accettasse di ridurre l’offerta e solo successivamente a un’intesa già in tasca tra sauditi e russi. Riad non ha interessi collimanti in tutto con gli altri membri OPEC. Da leader del mercato petrolifero mondiale, deve valutare gli effetti delle sue mosse sulla crescita globale e sulle relazioni diplomatiche con gli USA (vedasi le richieste esplicite del presidente Donald Trump per un abbassamento dei prezzi) e allo stesso tempo può interloquire direttamente con altri grossi player, come la Russia, senza passare per le previe decisioni interne.

Il mondo è profondamente cambiato da quando negli anni Settanta il cartello fu in grado di provocare due gravi crisi petrolifere, mandando l’Occidente in stagflazione. Adesso, l’America è diventata la prima produttrice mondiale con 11,6 milioni di barili al giorno, segnalando capacità ulteriore di crescita, così come la Russia si è riportata anch’essa verso i massimi da oltre 30 anni, tendendo agli 11 milioni.

Del resto, l’OPEC senza i sauditi non farebbe paura a nessuno, rimanendo un’ammucchiata di stati in conflitto tra di loro, non coordinati e spesso in condizioni finanziarie disperate, come Venezuela, Libia e Nigeria, esentati dall’accordo di due anni fa e che possono vantare un potere contrattuale solo se guidati dai sauditi, i quali si sono sobbarcati nei decenni grossa parte degli oneri derivanti dalla loro leadership, come il taglio della propria offerta per accontentare i partner.

Sebbene la privatizzazione di Aramco, la compagnia petrolifera di Riad, sia stata rinviata di almeno un paio di anni, resta formalmente tra gli impegni del principe Mohammed bin Salman per diversificare l’economia nazionale e nel caso la quotazione in borsa si avverasse, si mostrerebbe poco compatibile con la permanenza del regno nell’OPEC. A quel punto, la compagnia produrrebbe non più sulla base di input geopolitici, quanto di decisioni “market-based”. Ma il cartello ha senso proprio perché coordina le decisioni degli stati membri sul fronte dei livelli produttivi, al fine di influenzare i prezzi internazionali. Nessun investitore accetterebbe di acquistare azioni Aramco, se non gli fosse garantita una politica aziendale libera da condizionamenti esterni. Insomma, i sauditi starebbero nei fatti già abbandonando al suo destino l’OPEC, consapevoli di poter giocare per conto proprio e di avere così mani libere per sferrare duri colpi contro il nemico iraniano. E finché rimarrà nel cartello, formalmente dovrà coordinare i propri interessi con quelli di Teheran.

L’IPO di Aramco segnerà la fine dell’OPEC, ecco perché

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