Che razza di economia è quella in cui fare il pieno costa quanto un intero salario minimo? E, soprattutto, che razza di salario minimo sarebbe l’equivalente di 20 euro al mese. Siamo nel Libano, paese del Mediterraneo sprofondato in una delle peggiori crisi economiche dell’era moderna secondo la Banca Mondiale. Mercoledì, si è fermato per una giornata di sciopero generale indetto dai sindacati per protestare contro l’immobilismo del governo, a sua volta paralizzato dai veti incrociati tra i partiti che lo sostengono, a ridosso delle nuove elezioni politiche.

Era l’ottobre del 2019 quando l’allora premier Saad Hariri si dimetteva a seguito delle proteste di piazza contro la corruzione politica dilagante. Da allora, si sono succeduti tre governi, nessuno dei quali in grado di fare nulla. Soprattutto, tornando indietro moltissimi libanesi si terrebbero stretti, a malincuore, quel sistema corrotto, pur di non scatenare la gravissima crisi finanziaria alla radice di quella economica. Il cambio è collassato del 95% contro il dollaro e il paese è tecnicamente in default dal marzo 2020, quando non riuscì a pagare un Eurobond da 1,2 miliardi di dollari.

In questi ultimi due anni, l’indice dei prezzi è esploso del 400%, cioè è quintuplicato. Il tasso d’inflazione a novembre saliva al 201%, implicando che i prezzi al consumo siano triplicati in appena dodici mesi. A dicembre, la banca centrale ha emanato una direttiva con la quale i depositi in dollari potranno essere ritirati dai risparmiatori non più al tasso di cambio di 3.900, bensì di 8.000 lire contro il dollaro. I clienti si sono riversati nelle filiali per approfittarne, ma nel frattempo la lira al mercato nero scambia a valori molto più bassi: ne servono fino a 33.000 per un solo dollaro. E dire che ancora ufficialmente il cambio legale è fissato a 1.500.

Libano tra inflazione a tre cifre e cambio al collasso

La direttiva della banca non farà che incrementare la liquidità in circolazione, facendo esplodere ulteriormente i prezzi e implodere la lira.

Ormai, ci si aspetta che un dollaro arrivi a scambiare 50.000 lire, anche se nei fatti molti negozi non accettano più pagamenti in valuta locale, segno che la perdita della fiducia in essa sia praticamente totale. Il governo ha stimato in 68-69 miliardi di dollari le perdite a carico del sistema bancario. Una cifra abnorme per un’economia dal PIL stimato a soli 30 miliardi, sostanzialmente dimezzatosi nel biennio 2020-2021. Gli aiuti internazionali non arrivano, perché la politica di Beirut non fa che litigare e respingere qualsivoglia riforma dell’economia per superare la tempesta.

Il peggio è tutt’altro che finito. Le riserve valutarie della banca centrale stanno esaurendosi e ciò ha spinto già il governo ad eliminare o, comunque, tagliare numerosi sussidi, tra cui sul carburante. Altri restano, come sulle bollette della luce, divenuti insostenibili per i conti pubblici. Dopo le elezioni, la realtà imporrà di eliminarli o almeno ridurli, cosa che farà lievitare le tariffe e l’inflazione. E le limitazioni alle importazioni stanno già impedendo ai fornai di produrre tutto il pane e le focacce necessari per soddisfare la domanda di base dei clienti. Di questo passo, a breve resteranno senza farina e i libanesi rischiano la carestia. Già oggi, l’80% di loro vive in povertà.

E dopo quasi trenta anni di guida della banca centrale, al governatore Riad Salameh è stato ritirato il passaporto. Sul suo conto pendono le accuse di sottrazione di denaro pubblico e riciclaggio di denaro, a seguito di indagini principalmente in Francia e Svizzera. La sua figura resta inamovibile e potente, dato che nessun politico osa chiederne la testa, essendo a conoscenza di tanti segreti che coinvolgono tutta la classe dirigente di Beirut. La sua permanenza al potere, tuttavia, funge da freno per qualsiasi sostegno internazionale.

Nessun paese straniero o organismo sovranazionale intende inviare denaro a un istituto gestito senza alcuna trasparenza e che con il suo schema Ponzi finanziario ha portato al collasso quella che un tempo era considerata la “Svizzera del Mediterraneo”.

[email protected]