I colossi della tecnologia attirano sempre più non solo invidia, bensì pure critiche per il loro modo di gestire gli affari. Una polemica in questi giorni è esplosa a proposito della loro politica commerciale. La cosiddetta pubblicità mirata o “ad targeting” consente alle imprese di puntare in maniera più appropriata sugli utenti che navigano su un social network o su un motore di ricerca, sulla base di determinate caratteristiche, tra le quali le espressioni digitate sul sito e l’appartenenza a gruppi.

Qualche giorno fa, ProPublica ha pubblicato i risultati di un test condotto su Facebook e Google, che hanno non poco imbarazzato le società di punta della Silicon Valley. L’organizzazione no-profit ha simulato l’acquisto di pubblicità per 30 dollari, puntando sul target di 2.300 iscritti a Facebook e che avessero a che fare con espressioni anti-semitiche come “odio gli ebrei”, “come bruciare gli ebrei”, “storia degli ebrei rovina del mondo”. Con suo profondo stupore, tutte e tre le pubblicità sono state approvate dal social entro 15 minuti. (Leggi anche: Silicon Valley invidiata in tutto il mondo, ma è un inferno per i suoi abitanti)

Stessa prova con Google, su cui digitando espressioni come “perché gli ebrei sono la rovina del mondo” e “la rovina dei bianchi”, il motore di ricerca ne elencava altre, del tipo “la rovina dei neri nel tuo vicinato”, “parassiti ebrei”. E anche in questo caso, l’organizzazione è stata in grado di acquistare pubblicità, puntando sugli utenti in un qualche modo connessi a tali espressioni razziste, di odio. Mountain View, però, si è difesa, sostenendo di avere successivamente informato il cliente che tali parole non fossero almeno in parte acquistabili per fare pubblicità, mentre la creatura di Mark Zuckerberg (di origini ebraiche) si è scusata e ha ribadito l’intenzione di lavorare ancora più duramente per migliorare il suo sistema di algoritmi per la gestione delle campagne pubblicitarie.

Avendo violato il codice dei valori del social, ha spiegato Facebook, le imprese che volessero utilizzare espressioni razziste come “ad targeting” non otterrebbero il via libera.

Big data alla mercé dei pubblicitari

Per non parlare di Twitter, che secondo una ricerca di Daily Beast offrirebbe ai pubblicitari la possibilità di puntare su 26,3 milioni di utenti connessi all’espressione “sporco messicano”, 18,6 milioni legati alla parola “nazi” e 14,5 a “negro”. Anche in questo caso, la società si difende, sostenendo che già al momento della ricerca condotta dal quotidiano, tali termini non risultavano più acquistabili per fare pubblicità.

Intendiamoci, se una società volesse puntare su un target di razzisti, non necessariamente significa che essa lo sia a sua volta. Gli affari sono affari. Se si scoprisse, per puro esempio, che coloro che frequentano comizi e raduni anti-semiti siano anche più inclini a bere birra, sarebbe quasi naturale che una società produttrice della bevanda cercasse di raggiungerli sul web, facendo comparire la propria immagine su potenti mezzi di comunicazione di massa, come Facebook, Google, Twitter, Snapchat, etc. (Leggi anche: Ricerche Google, Commissione UE pensa a maxi-sanzione)

Certo, sarebbe efficace per il business, ma non etico. E non che i due aspetti vadano spesso d’accordo e che sia la prima volta che una campagna pubblicitaria scavalchi i codici etici scritti e non. Lo scorso anno, YouTube (società controllata da Google) fu oggetto di un boicottaggio da parte di numerose multinazionali, dopo che si scoprì che diverse pubblicità erano state caricate su siti di istigazione all’odio e che poco avevano a che vedere con i marchi sponsorizzati. (Leggi anche: Pubblicità YouTube, boicottaggio multinazionali)

Quel che maggiormente rileva in questa vicenda è come i colossi della cosiddetta “big tech” siano ormai in grado di vendere l’utente ai pubblicitari, conoscendo le sue preferenze più di quanto non sia in grado nemmeno un amico o un parente stretto, perché nel “segreto” di internet, ciascuno digita ciò che più lo interessa, senza le remore della stigmatizzazione sociale.

Silicon Valley non paga per quel che “acquista” a costo zero

I colossi della tecnologia mettono a disposizione delle imprese strumenti avanzatissimi, con i quali ottenere il massimo risultato possibile, cosa che fino all’altro ieri non era possibile, se non fino a un certo punto. La domanda che ci si pone, tuttavia, è se questo modus operandi sia anche frutto di un qualche merito particolare o se le multinazionali della Silicon Valley, in particolare, non siano diventate semplicemente una macchina autorizzata a stampare soldi senza sostenere un costo adeguato.

A ben pensarci, Google e Facebook, solo per citare le due grandi società della “big tech”, non farebbero altro che carpire informazioni degli utenti e venderle alle imprese che ne hanno bisogno per le loro strategie commerciali. Il fatturato è enorme: tra il social di Zuckerberg e la controllata di Alphabet ci sono stati ricavi per oltre 120 miliardi nel 2016. E il margine operativo di Facebook nei 12 mesi al giugno scorso risultava del 42%, quello di Google del 23,2%. Nel primo caso è palesemente altissimo, ma anche nel secondo si mostra più elevato dell’87% delle 366 imprese globali.

Se questi numeri spiegano qualcosa è che i colossi tecnologici fatturerebbero molto e spenderebbero poco. Di fatto, il loro business consiste nel prendere dati dell’utenza a costo quasi zero (offrono un servizio apparentemente “gratuito”) e fornirle a chi ne ha bisogno. Se un iscritto a Facebook o un navigatore del web dovessero essere pagati per i dati preziosi da loro forniti e sui quali verranno maturati i ricavi delle società clienti della “big tech”, tali informazioni diverrebbero molto meno una macchina da soldi per chi le vende e molto più costose per chi le acquista. Viene da chiedersi se riporre così tanta attenzione ai “big data” non finisca per deprimere le strategie di marketing, riducendole a una semplice osservazione di risultati di algoritmi digitali.

Non è che alla fine l’eccessiva tecnologia porterà a imprese pigre e a una privacy praticamente inesistente? (Leggi anche: Privacy finita nell’era internet con i big data?)