A settembre, l’indice dei prezzi nell’Eurozona è sceso dello 0,3% su base annua, in calo dal -0,2% di agosto. Lo ha reso noto venerdì scorso l’Eurostat ed è la prima volta dal 2016 che l’istituto registra una contrazione per due mesi consecutivi nell’area. A inizio anno, l’indice segnava +1,4%, ma già a marzo la crescita si dimezzava con l’arrivo dell’emergenza Covid.

Il vice-governatore della BCE, Luis de Guindos, commentando i dati, ha dichiarato di attendersi un tasso d’inflazione negativo per il resto dell’anno, ma in decisa ripresa nel 2021, quando dovrebbe esservi il rimbalzo del pil dopo il crollo accusato nel 2020.

Lo spagnolo ha anche ricordato che la Francoforte possiede le munizioni necessarie per reagire, sebbene non avverta l’urgenza di farlo adesso.

Il mercato sta scontando un prossimo taglio dei tassi overnight al -0,60% entro fine anno, così come un secondo potenziamento del PEPP, il piano emergenziale anti-Covid varato a marzo per 750 miliardi e portato a giugno a 1.350, nonché esteso temporalmente fino al giugno dell’anno prossimo. E de Guindos ha parlato proprio della possibilità di “ricalibro” del programma all’occorrenza.

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Rischio deflazione reale?

Ad avere inciso negativamente sui prezzi sono stati diversi fattori concomitanti. In primis, le basse quotazioni delle materie prime, tra cui il petrolio, quest’ultimo tornato sotto i 40 dollari al barile nella seduta di venerdì, alla notizia che il presidente americano Donald Trump e la moglie Melania sono risultati positivi al test anti-Covid. In più, da metà maggio a fine agosto il cambio euro-dollaro si era rafforzato di oltre il 10%, nei fatti rendendo ancora meno costosi i beni importati, commodities incluse. Infine, il taglio temporaneo dell’IVA in Germania per sostenere i consumi ha avuto un suo ruolo, se è vero che l’inflazione tedesca sia scesa dallo 0,9% di giugno al -0,2% di settembre.

Parlare di rischio deflazione appare al momento un’esagerazione. I prezzi si contraggono e continueranno a cedere fino a quando il pil nell’area non inizierà a rimbalzare, trainato dai consumi, ma difficile che questa tendenza attecchisca anche per il medio-lungo periodo. Ad ogni modo, la BCE non può nemmeno limitarsi a confidare semplicemente nel rimbalzo dell’economia, in quanto c’è in agguato la seconda ondata dei contagi, se così possiamo definirla. La situazione sanitaria è assai delicata in Spagna e Francia e in deterioramento anche in Germania e Italia. La crescita giornaliera dei positivi si è impennata nelle ultime settimane, risultando spesso più alta rispetto ai picchi toccati nella fase di emergenza.

Parigi e Madrid stanno imponendo nuove restrizioni, così come diverse regioni italiane. Queste azioni avranno un impatto negativo sulla ripresa, che ora è attesa meno marcata e più lenta. Questo scenario indebolisce le aspettative sulla domanda aggregata nell’area, con conseguenze negative sui prezzi. Per questo, quasi certamente la BCE invierà un nuovo segnale ai mercati entro Natale. Come? Tagliando i tassi overnight, aumentando gli acquisti di assets condotti con il PEPP, forse (anche) attraverso il QE per non indispettire i paesi del Nord Europa. Infatti, con il PEPP, a differenza del QE, non sarebbe tenuta al rispetto del “capital key”, la regola che lega gli acquisti alle dimensioni economiche degli stati. In soldoni, non potrebbe aiutare in misura particolare paesi come l’Italia, rassicurando la Germania e gli alleati sulla non volontà di monetizzare i debiti sovrani più rischiosi.

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