E’ passato in sordina il discorso di mercoledì del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, reso al Parlamento di Strasburgo e che è stato surclassato mediaticamente dal testo anti-Orban approvato in plenaria per le reiterate violazioni dell’Ungheria dei principi UE, nonché dalla riforma sul copyright. Eppure, fareste bene a leggervi quel discorso, tenuto in occasione della presentazione del programma per il prossimo anno e anche noto come sullo Stato dell’Unione, una sorta di scimmiottamento non imperdibile di quanto annualmente avviene negli USA.

Juncker, rivolgendosi agli euro-deputati, ha definito “assurdo” che ancora oggi la UE continui a importare petrolio, pagandolo in dollari per l’80%, nonostante le importazioni dagli USA siano solo il 2% del totale. Egli ha invitato le istituzioni europee a rafforzare il “ruolo internazionale” della moneta unica.

Bomba cinese contro i petrodollari, America minacciata

La UE importa ogni giorno 11 milioni di barili di greggio e lo paga in euro sostanzialmente solo alla Norvegia, mentre per il resto lo fa in dollari. Perché? semplice convenzione internazionale, che risale all’accordo tra l’amministrazione Nixon e Re Faisal agli inizi degli anni Settanta, quando l’America ottenne che l’allora principale produttore di petrolio al mondo accettasse pagamenti solo in dollari, concedendo in cambio tutela militare nel Medio Oriente. Poiché Riad era e resta un leader del settore, gli altri produttori si sono mossi nella stessa direzione e oggi la quasi totalità del greggio esportato viene pagato in valuta americana. Inutile spiegarvi quanto questo sistema dei cosiddetti “petrodollari” finisca per creare una distorsione positiva in favore del biglietto verde, tenendone sempre alta la domanda, ovvero rafforzandone i tassi di cambio e comprimendo i tassi di mercato vigenti negli USA. In sintesi, famiglie, imprese e stato in America possono permettersi di indebitarsi a condizioni molto più favorevoli di quelle altrimenti spuntate.

Il valore delle importazioni di petrolio nella UE ammonta a 300 miliardi di euro all’anno, sebbene non sia l’unica spesa sostenuta in gran parte in valuta straniera.

Solo il 34,4% dei beni esportati e il 49,3% delle esportazioni vengono regolati in euro su interscambi complessivi pari a 3.735 miliardi all’anno. Nel caso in cui la UE raggiungesse la stessa percentuale con cui gli USA regolano le loro posizioni commerciali in dollari, pari al 93%, ci troveremmo dinnanzi a 1.900 miliardi di euro di maggiore domanda per la moneta unica, a detrimento principalmente proprio dei dollari. Si consideri che gli USA esportano verso la UE 270 miliardi di dollari di merci, le quali andrebbero regolate, a rigore, sempre in dollari, anche perché sembra difficilissimo immaginare che le imprese americane accettino pagamenti in valute diverse dalla loro. Ad oggi, però, ben il 44% degli scambi commerciali europei continua ad essere regolato in dollari, qualcosa come oltre 1.650 miliardi all’anno, quasi 1.400 in più del dovuto.

Perché la UE usa ancora i dollari nei commerci

A tanto ammonterebbe la minore domanda di dollari ogni anno, se l’Europa iniziasse a sganciarsi dalla sfera dei dollari. Si consideri che riuscirebbe nell’intento nell’arco di una giornata, se solo lo volesse. L’euro non è una valuta secondaria, ma la seconda più importante al mondo, rappresentando un quinto delle riserve valutarie del pianeta. E la sola Russia fornisce alla UE il 28% di tutto il greggio importato. Mosca sarebbe più che lieta di farselo pagare in euro, riuscendo così a infliggere un duro colpo al dollaro. Lo stesso accadrebbe verosimilmente con altri partner commerciali cruciali, come la Cina. In un certo senso, se Bruxelles avesse coraggio, l’euro godrebbe di almeno parte degli stessi benefici del dollaro, ossia di una domanda verosimilmente crescente ed elevata, nonché di rendimenti interni più bassi, a tutta convenienza di famiglie, imprese e governi.

Sogno americano si trasformerà in un incubo con la fine dei petrodollari

E allora perché non si decide una volta per tutte a passare dalle parole ai fatti? La risposta forse è politica. La UE non se la sentirebbe ancora di camminare solo sulle sue gambe e di affrancarsi dalla tutela del fratello maggiore, temendo di non essere in grado di difendere autonomamente la propria integrità territoriale nel caso di pericolo, come dimostrano ampiamente i casi Ucraina prima e il capitolo migranti di questi anni. Attorno al Vecchio Continente esistono aree fin troppo instabili da poter essere governate da una UE senza una politica e una difesa comuni. Dalla Libia alla Siria, da Israele all’Egitto, dalla Turchia alla Russia, passando per i Balcani, troppo alto il rischio di trovarsi da sola a fronteggiare emergenze insormontabili senza il soccorso americano e con governi europei quasi sempre in conflitto tra loro per interesse nazionali divergenti (vedasi Tripoli). E, infine, si tenga conto che UE ed Eurozona non coincidono, perché all’infuori dell’unione monetaria esistono ben 8 stati (UK escluso), tra cui le forti Danimarca e Svezia, a non utilizzare l’euro come moneta nazionale, sebbene un po’ tutti tengano ancorati i cambi ad esso, come la Polonia e la Repubblica Ceca e proprio la Danimarca, quest’ultima attraverso un “peg” alquanto rigido.

Ma quella di Juncker non è stata una minaccia a vuoto, quanto il senso di una sfida all’America di Donald Trump e della sua dottrina isolazionista. Continueremo a pagare il petrolio e gli aerei acquistati in dollari anche nei prossimi anni, ma da Strasburgo ieri è arrivato un avvertimento a Washington: nulla è scontato, l’euro può insidiare il dollaro, minacciando lo status di superpotenza finanziaria globale degli USA. Del resto, la cancelliera Angela Merkel lo aveva chiarito un anno fa con altre parole: “dobbiamo iniziare a sbrigarcela da soli, non possiamo più fare affidamento sull’America”.

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