Domani si tengono le elezioni presidenziali negli USA, che comunque andranno a finire, segneranno la fine dell’era di Barack Obama, il primo presidente afro-americano alla Casa Bianca. Già dalle primarie di entrambi i partiti abbiamo notato come gli elettori dei due principali schieramenti politici abbiano segnalato una profonda insofferenza verso lo stato dell’economia americana, nonostante agli occhi di un europeo appaia tutt’altro che in cattiva forma. Senza volontà esaustiva, analizziamo alcuni dati macro-economici degli ultimi otto anni, al fine di valutare meglio il lascito di Obama e di capire cosa stia spingendo milioni di americani ad affidarsi al movimento anti-establishment di Donald Trump da una parte e cosa abbia sospinto a lungo le quotazioni del “socialista” Bernie Sanders dall’altra.

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Concentriamoci, in particolare, sul mercato del lavoro a stelle e strisce. Nel 2008, il numero degli occupati era di 144 milioni di persone, pari al 47,4% della popolazione complessiva. Il mese scorso, gli occupati risultavano saliti a 152 milioni di unità, pari al 47,3% della popolazione americana, sostanzialmente stabile in termini percentuali.

Lavoro USA, dati contrastanti

Nel frattempo, però, è sceso di parecchio a 7,8 milioni di unità il numero dei disoccupati, che alla fine dell’era George W.Bush, a causa dello scoppio della violenta crisi finanziaria, era salito a 11 milioni. In termini percentuali, si è passati dal 7,3% al 4,9%, quest’ultimo un livello compatibile con la piena occupazione.

Tuttavia, sommando il numero dei lavoratori part-time involontari, ovvero di coloro che vorrebbero lavorare a tempo pieno, ma non sono nelle condizioni di trovare un’occupazione full-time, secondo il Dipartimento del Lavoro di Washington, il tasso effettivo di disoccupazione aumenterebbe al 9,5%, una percentuale affatto bassa, specie per i livelli americani. In tutto, oggi lavorano a tempo parziale 27,7 milioni di persone, +700.000 rispetto a otto anni fa.

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Redditi reali dei lavoratori USA cresciuti di poco

Il tasso di occupazione è sceso al 59,7% dal 61% dell’ultimo mese del 2008, ai minimi degli ultimi 38 anni, a conferma che la discesa del tasso di disoccupazione sarebbe in parte frutto non di maggiori chance lavorative, ma della minore ricerca attiva di occupazione degli americani. Parimenti, la partecipazione al lavoro è scesa negli stessi anni dal 65,5% al 62,8%.

Un dato positivo riguarda, invece, il numero medio di ore lavorate per settimana, salito da 33,8 di fine 2008 a 34,4 del mese scorso. Considerando che nel frattempo il salario orario è cresciuto da 18,50 a 21,72 dollari (+17,4%), troviamo che mediamente un lavoratore americano percepirebbe oggi 38.853 dollari all’anno, quasi il 20% in più dei 32.515 di fine 2008. Certo, bisogna tenere conto anche di un’inflazione cumulata di oltre il 14% dal 2008 ad oggi, che riduce a poco più del 5% l’incremento del salario orario medio in otto anni, ovvero alla media annua di +0,65%.

Scarsa crescita economica e tutta a debito

Infine, guardiamo ai dati macro per eccellenza: pil e debito pubblico. Ebbene, il primo è cresciuto in termini reali del 12% sotto l’amministrazione Obama, pari a un tasso annuo medio di appena l’1,4%. E il presidente uscente è anche il primo dal Secondo Dopoguerra a non avere mai registrato una crescita annua di almeno il 3%. Non solo, ma a fronte di meno di 4.000 miliardi di crescita nominale del pil USA, il debito pubblico nazionale è esploso di 9.500 miliardi, ovvero del 95%, per cui possiamo anche affermare che sotto gli ultimi due governi democratici sono stati necessari 2,5 dollari di debito per stimolare la crescita di appena un dollaro. E la crescita del pil dal 2008 ad oggi è stata quasi perfettamente coincidente negli USA con l’espansione del bilancio della Federal Reserve, come a dire che l’America è cresciuta poco, ma soprattutto a debito.

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Ora, non sappiamo se sia questa la chiave di lettura per comprendere il malcontento degli elettori americani, ma di certo ci aiuta a fare luce su un fatto: gli USA non sono stati sotto Obama un’economia rampante, quella dell’“American dream”. Non sappiamo ancora se sia una responsabilità dell’amministrazione uscente o il sintomo di uno slowdown strutturale, che tenderebbe a colpire le economie mature; fatto sta, che l'”europeizzazione” dei tassi di crescita economici sta scatenando tensioni e un senso di frustrazione tra la cosiddetta middle class, che è alla base dell’ampio consenso, che pare domani dovrebbe raccogliere ufficialmente il candidato repubblicano, quand’anche fosse sconfitto. Un monito a Washington, perché non basterà sconfiggere Trump per mettere a tacere una rabbia latente e forse destinata ad emergere con maggiore preponderanza nei prossimi anni.