Milioni di italiani hanno scoperto il cosiddetto “smart working”, noto anche restrittivamente come telelavoro, in piena emergenza Covid. Di necessità, le imprese hanno dovuto fare virtù, consentendo ai dipendenti di lavorare da casa per evitare occasioni di contagio in azienda e nei luoghi pubblici. Presto per tirare le somme, ma la sensazione è che il modello abbia funzionato, anche grazie all’ormai diffusa tecnologia, con collegamenti da remoto pressoché possibili in ogni abitazione. Quanto alla produttività, il settore privato sembra che non possa affatto lamentarsi, mentre nel pubblico si sarebbero registrate sacche di solite furbizie.

Eccezione per gli insegnanti, che hanno continuato a tenere le lezioni online con impegno lodevole.

Politici e media appaiono preoccupati per i risvolti che avrebbe un’applicazione diffusa e definitiva dello smart working. L’allarme non è solo italiano, essendo stato lanciato anche a New York e Londra, dove i rispettivi sindaci temono lo spopolamento, anche commerciale, di intere aree urbane. In Italia, i grossi centri che fiutano il rischio sarebbero quelli come Milano e Roma.

Dal Coronavirus al telelavoro, così l’Italia scopre in emergenza il suo futuro “smart”

Conseguenze del telelavoro

Lavorare da casa significa non fare benzina per andare in ufficio con l’auto o non pagare il biglietto per salire su bus, tram o treno. E anche non consumare la colazione al bar, non fare pausa pranzo al ristorante, etc. Tante attività rischiano effettivamente di chiudere i battenti, essendo sorte in prossimità dei luoghi di lavoro e avendo, in un certo senso, vissuto di rendita per decenni. Tutto vero, ma bisogna considerare che i minori consumi nelle ore lavorative verrebbero almeno in parte rimpiazzati da un incremento nelle fasce orarie extra-lavorative. Chi non esce durante il giorno per lavorare, lo farà con ogni probabilità di sera per svagare un po’ con gli amici, prendendo un aperitivo o una birra.

Insomma, l’offerta ristorativa e commerciale andrebbe ricalibrata secondo i nuovi bisogni, ma non scomparirebbe.

Altra conseguenza, la minore necessità di vivere nei pressi del luogo di lavoro. Ciò smaltirebbe l’afflusso di lavoratori nelle grandi città e a farne le spese sarebbero i proprietari degli immobili, che oggi troppo facilmente riescono ad affittare uno sgabuzzino per diverse centinaia di euro al mese, incidendo finanche per oltre la metà dello stipendio dell’inquilino. Sarebbe un male? L’offerta abitativa nelle grandi città è da tempo scadente per le condizioni in cui costringe a vivere milioni di persone (pochi metri quadrati per inquilino), a fronte di costi eccessivi e sempre meno sostenibili.

Lo smart working costringerebbe il mercato a riadattarsi ad una domanda non solo in calo, ma anche probabilmente più desiderosa di abitazioni confortevoli, in cui trascorrere molte ore al giorno e non solo quelle per dormire. La vita nel frattempo diverrebbe più rilassante per gli abitanti, data la minore congestione del traffico. Le vie cittadine riprenderebbero finalmente ad essere vissute e non solamente percorse a ritmo di maratoneta. Certo, chi vive oggi di rendita, avendo la fortuna di possedere uno o più immobili (magari solo ereditati) da locare in aree molto densamente abitate, dovrebbe rifarsi i conti. Non sarebbe più automatico trovare inquilini disposti a pagare gran parte della busta paga per un tugurio e chissà che ciò non spinga ad accrescere l’offerta locativa per il segmento turistico e a investire per migliorarla. I tempi cambiano e l’evoluzione non si può fermare per sperare di proteggere gli interessi consolidati.

Il telelavoro rivoluzionerà il nostro modo di vivere e anche il mercato immobiliare

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