La sentenza della Corte Costituzionale tedesca di ieri segna uno spartiacque nella storia ormai ultra-ventennale della BCE. Per la prima volta da quando è nato l’euro, esplicitamente la Germania mette la banca centrale dinnanzi a una scelta: ottemperare al suo mandato entro i limiti esplicitati dall’art.123 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea o perdere la partecipazione della Bundesbank ai suoi programmi monetari, ovvero mettere a repentaglio la stessa unione monetaria. I giudici di Karlsruhe non hanno bocciato il “quantitative easing”, ma hanno assegnato a Francoforte un ultimatum di 3 mesi, entro i quali o l’Eurotower chiarisce come starebbe adempiendo al principio di proporzionalità negli acquisti o dovrà fare a meno della Germania.

Dire che l’operato di Christine Lagarde ne esca di molto indebolito e depotenziato è poco. Siamo dinnanzi a uno stato membro che minaccia esplicitamente la banca centrale di non attuare più i suoi piani, un modo sottile di minacciare l’uscita dall’euro o, se vogliamo, l’uccisione dell’euro per tutti. Nel frattempo, dall’Olanda arrivano condizioni dure sul MES anche per il caso di richiesta di aiuti legati all’emergenza Coronavirus, mentre la Commissione non riesce da settimane a dare una risposta sul “Recovery Fund”, rinviando la sua decisione, mentre urgerebbero azioni rapide, concrete e robuste per evitare il collasso fiscale e finanziario di parte dell’area.

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Nell’Eurozona latita la politica

Il vuoto politico nell’Eurozona, oltre che nella UE, è sempre stato colmato dai tecnicismi. Il dibattito a tratti stucchevole sul MES su come affrontare la crisi provocata dalla pandemia e sulle funzioni della banca centrale cela non una vera divisione ideologica tra gli stati, bensì la difesa di interessi nazionali tra loro in conflitto e, soprattutto, la volontà del Nord Europa di non avallare alcuna costruzione reale ed efficiente di unione monetaria.

Tedeschi e olandesi amano l’euro fintantoché esso rechi loro vantaggi. Non accettano nemmeno lontanamente l’idea che proprio questi vantaggi richiedano il sostenimento di costi, in termini o di trasferimento di ricchezza verso gli stati economicamente più deboli o di una qualche forma di mutualizzazione, pur parziale, dei debiti sovrani.

Una unione monetaria di 19 mercati finanziari diversi non può durare, se non a costo di creare tensioni crescenti e dirompenti al suo interno. Eppure, sembra che nessuno voglia assumersi la responsabilità storica di staccare la spina o anche solo minacciare di farlo nel caso in cui a questa inefficienza strutturale non venisse data finalmente una risposta adeguata. Anziché perdersi in chiacchiere e giocare il gioco impostogli dagli stati forti dell’area, il premier Giuseppe Conte dovrebbe presentarsi al prossimo Consiglio europeo con una sola domanda da porre a tutti i colleghi collegati in videoconferenza: “siete d’accordo a proseguire l’esperimento dell’euro o la chiudiamo qua senza rancori per nessuno?”.

Non sarebbe una domanda retorica, perché a chi risponderà “sì” o “ja” o “yes” verrà altresì chiesto se abbia intenzione di continuare a prendere in giro i restanti partner dell’area con la creazione di meccanismi tecnico-burocratici infernali, il cui unico scopo consiste ormai palesemente nell’impedire che il club dell’euro si trasformi in una unione monetaria completa ed efficiente, caratterizzata da basse o nulle differenze di costo dei capitali (spread azzerati) e da una crescente condivisione di rischi e oneri. Comprensibile che i paesi fiscalmente virtuosi si oppongano a questa svolta, ma proprio per l’assenza di fiducia reciproca bisognerà una volta per tutte decidersi se si abbia voglia di condividere una moneta, con tutto quanto ne consegue, con paesi verso i quali non si nutre grande stima.

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O svolta o fine dell’euro

Il trucco di concentrare ogni discussione sui dettagli tecnici è una trappola in cui la Germania ci ha fatto cadere sin dagli inizi degli anni Novanta, quando non avendo alcuna voglia di dar vita all’euro, ma costretta nei fatti dalla Francia, ha iniziato a mettere mano a centinaia e poi migliaia di pagine di trattati dal tenore solo apparentemente tecnico, che celano nella sostanza la volontà di non condividere alcunché di definitivo con paesi ritenuti “inferiori” sul piano finanziario e fiscale. Le relazioni tra stati dell’area sono state ridotte a rapporti di credito-debito e la politica è stata sostituita del tutto dalla tecnocrazia, costellata da divieti e paletti, che presi singolarmente sembrano tutti sensati, ma che allargando lo sguardo appaiono per quello che sono: la costruzione di un’area economica rigidamente impostata su schemi privatistici per impedire che si arrivi a una qualche forma di reale integrazione politica e finanziaria.

Sono i tedeschi ad essersi lasciati una via di fuga per il caso in cui l’euro non dovesse più risultare loro funzionale alla difesa degli interessi nazionali. Da questo equivoco è necessario uscire subito, con una domanda chiara che esiga una risposta altrettanto chiara e netta. Chi vuole l’euro deve sapere che non potrà continuare più a lungo a pretendere che esso funzioni come un contratto tra debitore e creditore, che il completamento dell’unione monetaria presuppone un’integrazione anche bancaria e fiscale. Ogni stato legittimamente dovrà compiere un’analisi benefici-costi per verificare quale scenario meglio gli convenga, ma quello che è diventato inaccettabile è l’essere presi in giro dal primo ministrello di turno, come l’olandese Wopke Hoekstra, che anziché mettere le carte in tavola e chiarire che questo euro non lo aggradi più, prende in giro per mesi decine di paesi con soluzioni tecniche che svelano tutta la sfiducia che l’Olanda, e non solo, nutre verso il Sud Europa.

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