Se c’è un ministro che non sta potendo perdere un minuto del suo tempo per lavorare a manetta, senz’altro è Marina Calderone. Il suo dicastero del Lavoro è pieno di dossier da affrontare: c’è la riforma del reddito di cittadinanza, quella della Naspi e, soprattutto, delle pensioni. Entro fine anno dovrà trovare un’alternativa alla legge Fornero, altrimenti i lavoratori potranno andare in quiescenza solo con 67 anni di età o almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (41 anni e 10 mesi per le donne).

La riforma delle pensioni è un’urgenza, ma stavolta sembra che il governo Meloni stia prendendo di petto il tema nel suo complesso. A fianco alle diverse ipotesi per poter lasciare il lavoro in anticipo, avanza l’idea della decontribuzione dello stipendio per chi, pur possedendo i requisiti, decidere di restare occupato. Si parla già di bonus a favore dei dipendenti pubblici, specie per categorie come i medici che scarseggiano nelle corsie degli ospedali o negli ambulatori.

Per i dipendenti privati si starebbe valutando il dimezzamento della tassazione dei premi di produttività. Ad oggi sono sottoposti a un’imposta del 10% per le erogazioni fino a 3.000 euro l’anno relativi a redditi fino a 80.000 euro. Sembra, però, che non vi sarà per il momento alcuna “flat tax”, forse neppure incrementale. Costerebbe troppo rispetto alle risorse molto esigue di cui dispone l’esecutivo in questi mesi. Il caro bollette assorbirà la quasi totalità degli spazi di manovra.

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In Italia si parla di riforma delle pensioni quasi ogni anno. Patologia di un sistema economico, dove i lavoratori non vedono l’ora di lasciare il posto di lavoro. Bisogna chiedersi perché. Escludendo coloro che svolgono lavori faticosi, i quali già sopra i 60 anni di età avvertono stanchezza fisica e mentale e si espongono, peraltro, a rischi crescenti sul piano della salute e della sicurezza fisica propria e degli altri, il problema esiste.

Il lavoro in Italia scarseggia e quel poco che c’è è mal retribuito, nonché presenta condizioni spesso poco appetibili anche sul piano non economico. Molto dipende senz’altro dalla struttura produttiva, con troppe aziende di piccole dimensioni incapaci di offrire stipendi adeguati e ambienti di lavoro gradevoli. Ma c’è anche un problema fiscale e normativo. Lo stato quasi punisce chi lavora e premia chi resta a casa. In questi anni abbiamo avuto un sussidio dopo l’altro, mentre per chi lavora ci sono state le briciole. Spesso, neppure quelle.

L’esigenza di una riforma delle pensioni sarebbe percepita con minore intensità se il governo pensasse a migliorare le condizioni del mercato del lavoro. Il lavoro di questi giorni sembra tendere verso un dirottamento delle risorse dall’assistenza all’occupazione. Ad esempio, si parla di taglio del cuneo fiscale per aumentare le buste paga dei lavoratori. Sarebbe un primo passo nella giusta direzione. Se le retribuzioni crescono, l’appeal del lavoro migliora. Ci saranno verosimilmente meno persone desiderose di andare in pensione. E altre si metterebbero a lavorare. La più alta occupazione migliorerebbe l’economia nazionale e i conti pubblici. Si ricaverebbero maggiori risorse da destinare a chi effettivamente ha bisogno di andare in pensione qualche anno prima. L’Italia sarebbe più equa, finalmente anche sul piano inter-generazionale.

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