La crisi energetica e gli sconvolgimenti geopolitici in corso hanno stravolto le posizioni dell’Unione Europea. Nell’autunno scorso, la Commissione ha incluso gas naturale ed energia nucleare tra le fonti “green”. Adesso, l’Europarlamento ha rivisto i suoi piani anche sulle auto elettriche. Solamente un anno fa, con una risoluzione approvava il “Fit for 55”. In esso, l’obbligo per i 27 stati comunitari di immatricolare il 100% di auto con motori elettrici entro il 2035. In sostanza, la fine dell’auto con motore a combustione.

La scorsa settimana, la svolta clamorosa: a larga maggioranza è stata bocciata la proposta dell’eurodeputato socialista bulgaro Petar Vitanov di dare seguito alla risoluzione.

Partito Popolare, conservatori, “macroniani” e persino alcuni pezzi del Partito Socialista hanno votato contro. Non più il 100%, bensì un obiettivo del 90% per le auto elettriche da immatricolare sul totale. E non è solo un fatto di numeri, quanto di approccio alla materia ad essere totalmente cambiato.

Auto elettriche non più unico rimedio all’inquinamento

Il voto contrario è derivato dalla presa d’atto che il metodo di misurazione dei tassi d’inquinamento dei veicoli fosse del tutto fuorviante. La sola misurazione “allo scarico”, infatti, non teneva conto dell’inquinamento prodotto lungo l’intera filiera produttiva per la costruzione di un’auto. Una elettrica non emette gas di scarico, per cui risulta formalmente del tutto green. Ma se per costruirla si utilizza energia prodotta da fonti molto sporche, come lo è il carbone, di fatto anch’essa inquina.

E c’è un altro problema di prospettiva: finora si è guardato negativamente al motore a combustione, dando per scontato che debba essere alimentato eternamente da carburanti inquinanti come benzina e gasolio. In realtà, si potrebbe fare leva su nuovi combustibili più puliti come il biogas. Ma se ci si pone l’obiettivo di vendere solamente auto elettriche da qui al 2035, nei fatti stiamo scartando ipotesi alternative di pari o migliore impatto positivo sull’ambiente.

L’impatto sull’industria dell’auto europea

Fin qui, le disquisizioni tecniche. La realtà è ben più politica di quanto pensiamo. Il commissario al Mercato interno, Thierry Breton, aveva ammesso che il passaggio all’auto elettrica avrebbe distrutto 600.000 posti di lavoro nell’Unione Europea. Avremmo smantellato pezzi di industria in Germania, Italia e Francia. Va benissimo trovare soluzioni per proteggere l’ambiente, ma non si possono chiudere gli occhi dinnanzi ai risvolti sociali ed economici delle misure adottate.

Fine dell’ambientalismo à la Greta

E negli ultimi mesi si è diffuso il timore che ad approfittare di questo embargo a favore delle auto elettriche sarebbe la Cina. Essa è più avanti di noi su questo campo e si rivela essenziale per la produzione delle batterie, grazie all’abbondanza delle terre rare di cui dispone, tra cui il famoso litio. Dunque, alla base del cambio di rotta dell’Europarlamento vi è stato il realismo dopo anni di eco-terrorismo mediato à la Greta e di ingenuità profuse a mezzo stampa da leader stralunati.

La guerra tra Russia e Ucraina ha messo l’Europa con le spalle al muro. Malgrado le fitte relazioni commerciali, essa ha dovuto prendere atto che la Cina sia un nostro “nemico” geopolitico. I tedeschi si erano illusi – o meglio, avevano fatto credere per convenienza di bottega – che il futuro europeo sarebbe stato con gli occhi a mandorla e che avremmo potuto continuare a fare affari anche con i russi. In pochi mesi, tali incongruenze sono saltate a galla.

L’ambientalismo salottiero è già stato rimpiazzato dal pragmatismo, non per questo meno efficace. Semplicemente, abbiamo aperto gli occhi e smesso di pensare che per salvare l’ambiente dovremmo smettere di produrre, consumare e finanche di respirare. E sembra volgere al termine la lunga era di regalie alle altre potenze asiatiche, che hanno smantellato l’industria continentale.

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