Si parla così tanto d’inflazione, che alla fine sono in pochi a capire davvero cosa sia e, soprattutto, cosa la provochi. Se apriamo un qualsiasi testo di economia, per inflazione s’intende “l’aumento generalizzato dei prezzi al consumo”, ossia anche “la perdita del potere di acquisto”. Non è inflazione se aumenta il prezzo di un prodotto (olio d’oliva) e al contempo diminuisce quello di un altro (arance), tale per cui l’indice generale resta invariato. E’ inflazione solo quando l’indice sale, cioè il saldo delle variazioni dei prezzi è positivo (negativo per le tasche dei consumatori).

A giugno, il tasso d’inflazione annuale in Italia è salito all’8%. Non era così alto sin dal 1986. Cosa significa nel concreto?

Immaginate di avere in tasca 1.000 euro sin dal giugno dello scorso anno. Se li aveste usciti fuori un mese fa, avreste potuto comprare beni e servizi per una quantità inferiore rispetto a un anno prima. In altre parole, sarebbe stato come se aveste non più 1.000 euro, bensì 920 euro. Infatti, l’8% di 1.000 euro fanno 80 euro. E questa è la perdita del potere di acquisto accusata nei dodici mesi.

Cosa succede al potere d’acquisto con l’inflazione all’8%

Spingiamoci oltre con l’esempio e immaginiamo che l’inflazione in Italia resti all’8% per un decennio. Per fortuna, nessuno la stima così alta. Come vedremo, sarebbe un salasso per le famiglie. In effetti, ecco come muterebbe il potere di acquisto nel corso dei dieci anni:

  • 920,00 euro dopo 1 anno;
  • 846,40 euro dopo 2 anni;
  • 778,69 euro dopo 3 anni;
  • 716,39 euro dopo 4 anni;
  • 659,08 euro dopo 5 anni;
  • 606,36 euro dopo 6 anni;
  • 557,85 euro dopo 7 anni;
  • 513,22 euro dopo 8 anni;
  • 472,16 euro dopo 9 anni;
  • 434,39 euro dopo 10 anni.

Per ogni anno, l’inflazione all’8% abbassa al 92% il potere di acquisto dell’anno precedente. Dopo dieci anni, 1.000 euro varranno quanto 434,39 euro oggi. Direte, beh, anche i redditi per fortuna salgono.

Non sempre e non in egual misura. Le condizioni di mercato spesso impediscono a salari e stipendi di adeguarsi all’aumento dei prezzi, ma ciò vale sempre più spesso per le stesse imprese. Quelle maggiormente esposte alla concorrenza, specialmente straniera, non riescono facilmente a scaricare sui prezzi alla clientela i maggiori costi. In questo caso, inflazione significa riduzione dei margini di profitto.

Risparmio zavorrato dall’aumento dei prezzi

Le banche centrali si mostrano più tolleranti di qualche decennio fa verso aumenti contenuti dell’inflazione. Eppure, anche quelle che appaiono piccole variazioni dell’indice, finiscono alla lunga per impattare in misura drammatica sui consumatori. Di sotto, vi proponiamo due casi: il primo sconta il potere di acquisto di 1.000 euro in dieci anni con un’inflazione annua stabile al 2%, il secondo con un tasso al 3%.

  • 980,00 euro; 970,00 euro;
  • 960,40 euro; 940,90 euro;
  • 941,19 euro; 912,67 euro;
  • 922,37 euro; 885,29 euro;
  • 903,92 euro; 858,73 euro;
  • 885,84 euro; 832,97 euro;
  • 868,13 euro; 807,98 euro;
  • 850,76 euro; 783,74 euro;
  • 833,75 euro; 760,23 euro;
  • 817,07 euro; 737, 42 euro.

Come vediamo, passare da un’inflazione al 2% a una del 3% comporta nel giro di un decennio perdere 80 euro di potere di acquisto in più su 1.000 euro, circa l’8%. Chiaramente, se allungassimo l’orizzonte temporale, otterremmo risultati ancora più eclatanti. Ad esempio, con un’inflazione al 2% dopo 50 anni 1.000 euro varrebbero 371,53 euro. Al 3%, varrebbero 228,11 euro. In altre parole, il denaro crolla di valore. Se non impiegato in maniera sufficientemente fruttifera, il risparmio ne risulta duramente intaccato.

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