Se il Coronavirus sia uscito dal laboratorio di Wuhan o si sia diffuso realmente tramite il mercato cittadino lo scopriremo in futuro o forse mai. Di certo, la Cina si è resa responsabile della distruzione dell’economia mondiale, a causa del grave e colpevole ritardo con cui ha comunicato al resto del pianeta l’esistenza dell’epidemia e le sue conseguenze reali per la salute dell’uomo. E questo, dopo che negli ultimi venti anni aveva già picconato le economie concorrenti, sfruttando l’insipienza dei loro governanti occidentali.

Era il 2001, quando la Repubblica Popolare Cinese entrava ufficialmente nell’Organizzazione per il Commercio Mondiale (WTO). Una grande opportunità di crescita per la sua economia, ma anche per il mondo.

Da allora, sono trascorsi due decenni, nel corso dei quali il pil cinese si è più che decuplicato, salendo a oltre 14.000 miliardi di dollari. Per contro, quello americano è solamente raddoppiato, quello dell’Eurozona ha fatto nettamente peggio, con l’Italia ad essere rimasta sostanzialmente ferma in termini reali. Com’è avvenuta la rampante crescita cinese? Grazie alle esportazioni, ça va sans dire! All’inizio del millennio, da economia sostanzialmente isolata, la Cina disponeva di riserve valutarie per appena 200 miliardi di dollari, salite a un massimo di 4.000 miliardi nel 2014 e attestatesi a quasi 3.100 miliardi di oggi. In poche parole, la Cina ha accumulato esportazioni nette di beni e servizi per 4.650 miliardi dall’ingresso nel WTO.

A fronte di questo enorme successo, il cambio tra yuan e dollaro si è rafforzato solamente del 15%. E già questa è la prima stonatura del quadro di colori dipinto dal Dragone. Come fa un’economia ad esportare così tanto e a mantenere relativamente debole la valuta? Semplice: il cambio cinese non è affidato al libero mercato, ma rimane manovrato dalla banca centrale (PBoC), che a tal fine tiene ad oggi nascosti i criteri con cui lo ancora alle principali valute mondiali, limitandosi a comunicare nel 2015 che rispetto al passato seguirebbe più da vicino le dinamiche del mercato.

Ancora oggi, poi, esistono due cambi: quello off-shore per lo yuan accessibile agli stranieri e l’altro onshore per gli scambi interni e inaccessibile agli stranieri.

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Economia cinese rimasta chiusa

Dunque, i cinesi vendono merci al resto del mondo certamente perché hanno costi di produzione molto più bassi, essendo ancora oggi un’economia relativamente meno ricca dell’Occidente, ma anche per via di un cambio volutamente sottovalutato. L’America ha aperto gli occhi sul tema già dal 2005, eppure solamente con la presidenza Trump ha accresciuto la sua pressione per ottenere un minore interventismo di Pechino a sostegno del suo export. Ma il cambio spiega parzialmente il successo cinese. La verità è che nel 2001 il mondo si aprì alla Cina, ma la Cina non si aprì al mondo, se non in minima misura. Mentre le imprese cinesi sono libere di investire praticamente ovunque, quelle straniere in Cina sono soggette a forti restrizioni, tra cui di assetto proprietario. Il 51% delle società cinesi deve risultare in mani patrie.

Quando nell’agosto del 2015 la Borsa di Shanghai e quella di Shenzen implosero, molti azionisti scoprirono sulla loro pelle l’esistenza di rigidi controlli ai movimenti dei capitali. In pratica, finché il valore delle aziende quotate saliva, sembrava che fosse facile comprare e vendere come in qualsiasi economia di mercato. Quando i titoli iniziarono a ripiegare, il governo ha imposto il divieto di vendita dei grossi pacchetti e quello di esportazione dei capitali, rimasti in molti casi imprigionati dentro i confini nazionali. E le regole in Cina valgono solo se sono convenienti all’economia domestica. Lotta all’inquinamento, diritti sindacali, tutela della salute non hanno nulla a che vedere con gli standard adottati dalle economie occidentali, le quali così facendo stanno auto-discriminandosi, costringendo le proprie imprese a delocalizzare in Cina per potersi permettere di produrre a costi inferiori a quelli che dovrebbero sostenere in patria per adeguarsi alle (pur spesso sacrosanti) leggi in vigore.

E cosa dire della commistione tra socialismo e capitalismo a discapito della concorrenza? Le dimensioni della Cina sul piano geografico e demografico sono tali, che l’impatto di ogni sua decisione sull’economia mondiale è rilevante. Come quando nel 2015 il governo decise che le imprese siderurgiche controllate dallo stato dovessero continuare a produrre acciaio agli stessi livelli, malgrado il crollo della domanda, intimando loro di vendere l’eccesso di offerta all’estero, provocando il crollo delle quotazioni internazionali e distruggendo migliaia di posti di lavoro, obbligando l’allora amministrazione Obama a comminare maxi-dazi sulle importazioni da Pechino. E l’acciaio made in China pesa per la metà del totale nel mondo.

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Funziona così il social-capitalismo di stampo cinese: le imprese producono senza i vincoli a cui sono sottoposti le concorrenti straniere e quel che non riescono a vendere in patria lo esportano anche sotto-costo. Ci penserà lo stato a coprire le perdite, attingendo a quelle immense riserve valutarie accumulate anche grazie alle distorsioni dei tassi di cambio. E poiché l’offerta cinese tende ad essere quasi monopolistica in ciascuna area della Terra, queste decisioni finiscono per eliminare la concorrenza e per accrescere ulteriormente le esportazioni del Dragone.

Reagire come l’amministrazione Trump, a soli colpi di dazi contro il non libero mercato cinese, serve a poco. Semmai, vanno ridiscusse le regole commerciali per una convivenza pacifica. Chi vuole esportare senza subire limitazioni dai mercati di sbocco non può atteggiarsi da “cherry picker”, ma accettare il menù completo delle condizioni. In primis, il cambio deve essere lasciato libero di fluttuare sui mercati valutari.

Secondariamente, la produzione di merci e l’erogazione di servizi devono avvenire su criteri di mercato e non etero-diretti. Terzo, i capitali devono essere lasciati liberi di muoversi in ingresso, ma anche in uscita. Quarto, alcune regole minime fissate in sede internazionale devono essere rispettate per minimizzare i rischi di dumping, come il riconoscimento dei diritti sindacali, l’adozione di politiche a tutela dell’ambiente e la tutela delle condizioni psico-fisiche dei lavoratori.

Il libero mercato non può esistere per alcuni ed essere il cavallo di Troia che altri utilizzano per far fuori la concorrenza. La Cina resta ad oggi una spietata dittatura comunista travestita da capitalismo, che è riuscita abilmente a sfruttare i vantaggi dell’uno e dell’altro sistema per farsi largo tra le potenze mondiali, diventandone la seconda più grande dopo gli USA sul piano strettamente economico. L’esigenza di porre un argine allo strapotere cinese si fa ancora più impellente dopo il disastro del Covid-19, che nel migliore dei casi si è diffuso nel mondo per l’opacità delle informazioni e l’assenza di controlli iniziali per il suo contenimento da parte di Pechino. Le economie occidentali usciranno semi-distrutte dalla pandemia e corriamo persino il rischio che colossi e fondi cinesi ne approfittino per comprare a pochi spiccioli le nostre realtà finanziarie e industriali. Sarebbe una brutta beffa, dopo venti anni di malinteso senso della globalizzazione.

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