L’inflazione nell’Area Euro è salita al 3,4% a settembre, sopra le stime del 3,3% e ai massimi da 13 anni. In Italia, è balzata dal 2% al 2,6%, mentre in Germania è esplosa al 4,1%. Per la prima volta, la BCE ha iniziato a parlare di “fattori strutturali” riguardo alla crescita dei prezzi, parole che non depongono certamente a favore del debito pubblico italiano per i prossimi mesi.

Il vice-governatore Luis de Guindos, che oltretutto non è neanche un “falco”, ha individuato nelle strozzature dell’offerta, nelle distorsioni nella formazione dei prezzi sul mercato dei beni e dei servizi e nei rincari energetici le principali cause “strutturali” di ripresa dell’inflazione.

Per quanto questa analisi non muti nel breve la politica monetaria della BCE, essa avrebbe conseguenze molto pesanti per il 2022, anno in cui cesserà di esistere il PEPP.

Quest’ultimo è un piano flessibile di acquisti di bond per 1.850 miliardi di euro, varato nel marzo 2020 per contrastare la pandemia e che ha come scadenza il 31 marzo 2022. Già al board di settembre è stato annunciato un “moderato” rallentamento negli acquisti settimanali, culminati nei mesi precedenti a oltre 20 miliardi. Ad agosto, però, già risultavano essere scesi a un totale di 65 miliardi. Un ombrello prezioso per il debito pubblico italiano in pieno Covid. Di fatto, la BCE ha monetizzato le emissioni nette di tutta l’Area Euro, impedendo ai rendimenti di salire. Al contrario, essi sono scesi ai nuovi minimi storici.

Debito pubblico tra PEPP e QE

Al posto del PEPP, l’istituto avrebbe in mente di potenziare il “quantitative easing” (QE), il piano ordinario di acquisti ad oggi fissato in 20 miliardi di euro al mese. Le indiscrezioni parlano di un raddoppio o finanche di una triplicazione degli importi. In pratica, il PEPP uscirebbe dalla porta per rientrare dalla finestra sotto mentite spoglie. Ma questo è lo scenario possibile con un’inflazione bassa.

Se è la stessa BCE ad iniziare a temere che dietro alla corsa di questi mesi vi siano cause strutturali, il QE non potrebbe granché variare al rialzo. E per il debito pubblico italiano sarebbero dolori.

La BCE ha acquistato con il PEPP titoli di stato dell’Italia per una media di 12,5 miliardi di euro al mese all’apice del programma. Con il QE, si è fermata quest’anno a una media mensile di neppure 2 miliardi. Ipotizzando che gli acquisti con il PEPP saranno rallentati a 60-65 miliardi al mese, nel corso del primo (e unico) trimestre del 2022 sarebbero acquistati BTp per ulteriori 30 miliardi. A questi si aggiungerebbero i quasi 25 miliardi nell’intero anno con il QE. Poiché il deficit fissato dal governo per il 2022 con la Nota di aggiornamento al DEF è al 5,6% del PIL, possiamo stimarlo in valore assoluto sopra i 100 miliardi.

A tanto ammonterebbero le emissioni nette di debito pubblico italiano. Siamo su livelli doppi rispetto agli acquisti complessivi della BCE tra PEPP e QE nell’ipotesi che il secondo rimanesse invariato. Per il Tesoro, il rischio di assistere a una rapida risalita dei rendimenti, cioè a un aumento del costo di emissione. Per fortuna c’è il Recovery Fund, che dovrebbe erogarci l’anno prossimo più di una trentina di miliardi tra prestiti e sussidi. Formalmente, questi ultimi non dovrebbero essere stati contabilizzati come debiti (non devono essere restituiti) e neppure come deficit. Nella migliore delle ipotesi, a QE invariato rimarremmo scoperti di una trentina di miliardi. Solo nel caso in cui gli acquisti ordinari della BCE almeno raddoppiassero, la copertura sarebbe pressoché integrale.

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