Sarà proprio vero che nella vita serve un pizzico di fortuna. Ne sa qualcosa il cancelliere Olaf Scholz, che da quando ha ereditato la carica dalla longeva Angela Merkel sembra passare da una piaga d’Egitto all’altra. La locomotiva d’Europa ha smesso di correre e trainare il resto del continente. Anzi, l’economia tedesca se la sta passando forse peggio di tutte in questi mesi. La crisi energetica la colpisce in misura imponente e, soprattutto, contribuisce a smantellare quel modello tedesco orgogliosamente costruito in decenni di pazienza teutonica.

Sta saltando tutto, forse gran parte di quel duro lavoro è andato già irreparabilmente perduto.

Economia tedesca nell’era globalizzazione

La Germania si riunificò nel 1990, ereditando il peso di una ex DDR praticamente in ginocchio sul piano economico e morale. Anziché mettersi le mani tra i capelli per i danni da riparare, colse l’occasione per rilanciare l’economia tedesca. Come? Sfruttando come mai prima i mercati internazionali. Puntando anche sulla manovalanza a basso costo dei Laender orientali, consolidò la sua macchina dell’export. Tutto ciò richiedeva, però, tre pilastri fondamentali: allacciare buone relazioni diplomatiche con il resto del mondo; puntare sulla globalizzazione, vale a dire sui mercati aperti; importare le materie prime a basso costo dalla Russia.

Il primo e terzo pilastro furono alzati quasi spontaneamente. Già con la divisione in blocchi, l’allora Germania Ovest aveva intrapreso la cosiddetta Ostpolitik, cioè si guardava anche ad est, pur essendo pienamente inserita nel campo occidentale. Con la caduta dell’Unione Sovietica, l’infittirsi delle relazioni commerciali con Mosca divenne quasi naturale. Il resto fu benedetto dalla stessa America. La costruzione della globalizzazione economica e finanziaria era iniziata già con Ronald Reagan e fu completata con Bill Clinton.

L’economia tedesca a tratti arrancò per il forte peso dell’arretratezza dell’ex DDR, ma si rilanciò con l’euro e le esportazioni nel resto del mondo.

Fu così che prima della pandemia raggiunse un avanzo commerciale di oltre cinque volte quello di inizio anni Novanta. In termini di PIL, oltre l’8%. In altre parole, la Germania fabbricava e vendeva a tutti, ricchi e poveri. Verso i soli USA riusciva a maturare un avanzo commerciale di 70 miliardi di dollari. Si capisce perfettamente perché Berlino era diventata bersaglio facile dell’amministrazione Trump tra dazi minacciati e imposti.

Il tracollo tra imprevisti e nuovo ordine mondiale

I tedeschi pensarono di averla scampata con la vittoria di Joe Biden nel novembre 2020. Credettero che la “guerra” commerciale con la Cina sarebbe venuta meno e che si sarebbero mantenute quelle relazioni basilari tra gli stati essenziali per conservare la globalizzazione. Non aveva previsto che la Casa Bianca avrebbe non solo mantenuto quasi intatti i dazi anti-cinesi dell’era Trump, ma che avrebbe aperto un secondo fronte bellico con la Russia.

Se già la pandemia aveva messo in crisi le catene di produzione lunghe, minacciando proprio uno dei pilastri del miracolo tedesco, adesso l’intera costruzione su cui questo si è retto per decenni è semi-crollata. Le importazioni dalla Russia dovranno essere praticamente minimizzate e fine del gas a basso costo. D’altra parte, lo stesso mercato cinese sta venendo meno, visto che Pechino fa parte dell’orbita geopolitica a noi avversa. Non solo l’economia tedesca non riesce più a produrre a costi competitivi, ma ha difficoltà a trovare mercati di sbocco credibili per il medio-lungo termine.

E questo è un problema serissimo per un paese, che in tutti gli ultimi anni aveva quasi snobbato le criticità dell’Eurozona, ritenendo che esse non la riguardassero. Berlino ha sottovalutato il fastidio con cui gli USA da tempo assistevano all’ascesa dell’Eurozona germano-centrica sul piano commerciale per via di una valuta – l’euro – giudicata sottovalutata per gli standard tedeschi.

Washington sapeva che l’unico modo per piegare l’area sarebbe stato di colpire al suo cuore: l’economia tedesca. E pazienza se, riuscendoci, il cambio euro-dollaro sia sprofondato sotto la parità. Almeno stavolta è sintomatico di una crisi quasi d’identità del continente.

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