Rendimenti in salita, costi in aumento per il debito pubblico italiano. Per ogni +100 punti base lungo l’intera curva delle scadenze, il costo per il Tesoro a regime sale di circa 19 miliardi di euro, oltre l’1% del pil. Attenzione, però, perché l’aggravio per i contribuenti non avviene fortunatamente in un solo anno, essendo necessario che sia rinnovato l’intero stock di debito. E ciò avviene, oggi come oggi, nell’arco di poco meno di 7 anni. Questa è la durata media residua del nostro debito pubblico, in aumento rispetto al minimo di 6,2 anni toccati negli anni passati con la crisi.

Agli inizi degli anni Novanta, prima che i governi iniziassero la fase di consolidamento, la duration media si aggirava sui 2,5 anni. Questo implicava per il Tesoro la necessità ogni anno di collocare sul mercato quasi la metà dell’intero stock, esponendosi agli umori degli investitori e, considerando l’elevato rapporto debito/pil, dovendo fare i conti con una quantità immensa di titoli da vendere rispetto alle proprie dimensioni economiche.

La verità scomoda per l’Europa sul debito pubblico italiano, esploso per salvare l’Occidente 

Negli ultimi anni, a fronte di un indebitamento complessivo – incluso quello di regioni, province e comuni – pari a 2.300 miliardi di euro, lo stato italiano si trova mediamente a rifinanziare annualmente scadenze nell’ordine dei 240-250 miliardi di euro sul tratto a medio-lungo termine e circa 150 miliardi di titoli a breve (BoT), quelli con scadenze fino all’anno. Tenuto conto del deficit, trattasi di impegni anche superiori ai 400 miliardi, un mostro compreso tra il 20% e il 25% del nostro pil.

Come tagliare le emissioni di debito

Il Fondo Monetario Internazionale ha fatto presente nell’affrontare il dossier sulla Grecia, che sarebbe opportuno che un governo ogni anno non si trovasse a chiedere al mercato finanziamenti per un importo superiore al 15-max 20% del pil.

Nel nostro caso, significherebbe tenersi sui 250-300 miliardi al massimo, ben al di sotto degli importi effettivamente richiesti. Come potremmo abbassare le emissioni? Allungando le scadenze medie. Se oggi collochiamo sul mercato un BTp a 10 anni, anziché uno a 2 anni, vuol dire che nel 2020 ci troveremo 1 miliardo in meno da rifinanziare. Le scadenze verrebbero così sfoltite nel breve e diluite nel tempo. Qual è il rovescio della medaglia? Poiché i rendimenti tendono a crescere lungo la curva delle scadenze, allungare queste ultime significa spendere di più per onorare il debito. Allo stato attuale, emettere un BTp a 10 anni ci costa intorno al 3,5%, uno a 2 anni l’1,9%. Su un miliardo di euro, il primo graverebbe sui contribuenti per circa 16 milioni di euro in più.

Questa è la ragione per la quale i governi, pur essendo teoricamente favorevoli a consolidare il debito, non riescono sempre a giungere all’obiettivo. Specie nelle fasi di ristrettezze economiche, ciò implicherebbe destinare maggiori risorse per pagare gli interessi, cosa che spinge spesso a fare l’esatto contrario, ovvero ad accorciare la duration media per risparmiare qualche spicciolo. La politica, si sa, ha esigenze ben più veloci di quelle dell’economia. I governi puntano a essere rieletti e i piani a lungo termine non sempre collimano con le loro necessità. Eppure, allungare il debito negli anni non solo riduce la dipendenza dello stato dalle variazioni di umore sui mercati, ma se l’operazione avviene in una fase di bassi rendimenti, si traduce in un risparmio di risorse. Prendiamo l’Italia di oggi. Pur con l’esplosione dello spread sulle tensioni tra Roma e Bruxelles riguardo la legge di Stabilità, i rendimenti decennali viaggiano al 3,5%, nettamente inferiori rispetto al 4,5-5% dei livelli pre-crisi. Emettere debito su questa scadenza, quindi, ci costerà certamente di più che collocare titoli di durata più corta, ma “bloccheremmo” il rendimento su valori quasi certamente più bassi di quelli che ci ritroveremmo a sostenere tra alcuni anni con la graduale normalizzazione della politica monetaria della BCE.

Si consideri che 10 anni fa, pagavamo il 4% per un BTp a 5 anni, per cui oggi ci costa di meno persino un bond di durata doppia rispetto ad allora.

Perché troppo debito pubblico in mani italiane frena la crescita economica 

L’occasione offerta dalla BCE

In sostanza, l’extra-costo si riduce nel tempo e potenzialmente l’allungamento delle scadenze creerebbe le premesse per allentare la tensione sui nostri titoli, perché una cosa sarebbe che il mercato si attenda 400 miliardi da rifinanziare, un’altra che debbano fronteggiare un’offerta di 100-150 miliardi più bassa. Gli spread stringerebbero, i rendimenti calerebbero. Di quanto dovremmo allungare le scadenze per comprimere le emissioni in area 10-15% del pil? Considerando che abbiamo un rapporto debito/pil al 130%, ogni anno dovrebbero essere rifinanziati bond tra BTp e BoT per non più di 180 miliardi di euro, a cui vanno sommate le emissioni nette (deficit). Rispetto ad oggi, si tratterebbe di allungare la duration di circa 3 anni. Costo stimabile a regime? 7-8 miliardi all’anno, ma per quanto detto sopra, probabile che il conto scenda per la minore percezione del rischio sui mercati.

E l’Italia avrebbe una occasione ghiotta per compiere un simile passo. La BCE starebbe per dare vita alla cosiddetta “operazione twist”, con la quale allungherebbe le scadenze dei suoi titoli di stato in portafoglio, in fase di reinvestimento. Ebbene, essa comprimerebbe i costi di emissione a lungo termine, appiattendo la curva dei rendimenti. Questo ci consentirebbe o di subire un aggravio inferiore a quello sopra indicato, a parità di allungamento delle scadenze, oppure di allungare il debito ancora di più, a parità di extra-costo atteso. Il Regno Unito, ad esempio, ha approfittato del crollo dei tassi negli anni della crisi per allungare la sua duration a ben 14 anni.

Se l’Italia si portasse a questi livelli, si troverebbe annualmente a rifinanziare sul mercato debito per non più di 160 miliardi, il 40% di quello odierno. Lo spread non solo sarebbe verosimilmente più basso, ma farebbe molta meno paura, visto che l’aumento di 100 punti base dei rendimenti lungo l’intera curva richiederebbe quasi 3 lustri per dispiegare i suoi effetti a regime.

E si consideri un dato molto interessante: nel tratto lungo, i rendimenti tendono a crescere molto lentamente. Volete un esempio? Il BTp marzo 2048, ossia il trentennale, rende oggi il 3,96%, solo 40 punti base in più dei decennali, la stessa distanza che sussiste tra i titoli a 7 e 10 anni. Il BTp “Matusalemme”, con scadenza 2067, paradossalmente rende persino meno, al 3,74%, scontando le minori incertezze che tipicamente gravano sui bond di durata più corta. Ora, per la legge della domanda e dell’offerta, se il Tesoro per assurdo annunciasse solo aste a lungo e lunghissimo termine, i rendimenti su queste scadenze salirebbero e scenderebbero sul tratto a breve. Pertanto, si tratta di dosare bene di periodo in periodo le emissioni, ma segnalando di volersi concentrare sulle durate superiori al decennio, il mercato ne ricaverebbe un’indicazione positiva e non negativa, premiando nel tempo gli sforzi del governo. Il problema è iniziare, perché chi avvia l’allungamento del debito paga un costo (minori risorse da destinare ad altre fonti di spesa e/o al taglio delle tasse), beneficiando chi si ritrovasse al governo negli anni successivi. E in un Paese in cui di governi in 70 anni se ne sono succeduti 65, difficile che si trovi un premier capace di ragionare a medio e lungo termine. Infatti, non siamo stati in grado di approfittare dell’azzeramento dei tassi da parte della BCE con il “quantitative easing”, avendo persino ridotto la duration per poi stabilizzarla a livelli di poco inferiori a quelli pre-crisi, anziché allungarla.

Così la BCE continuerà a sostenere il mercato dei bond e a salvare i conti degli stati

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