La scorsa settimana, il presidente della commissione sull’energia della Duma, Pavel Zavalny, si è detto favorevole al fatto che i “paesi amici” della Russia possano pagare le importazioni di gas e petrolio dalla Russia in Bitcoin. Un paio di giorni prima, il presidente Vladimir Putin aveva annunciato che le vendite di gas dovranno essere saldate in rubli o “in valuta forte”, vale a dire l’oro. E ha dato istruzioni in tal senso alla banca centrale e a Gazprom.

La proposta di Zavalny, che ha parlato a titolo personale e non ha alcun sigillo di ufficialità, ha smosso poco il mercato delle “criptovalute”.

Il prezzo dei Bitcoin nelle ore successive è arrivato a salire massimo del 4%. In effetti, ci sono molti dubbi sulla sua effettiva messa in pratica. Putin aveva accarezzato l’idea nel dicembre scorso, quando sostenne che un giorno le crypto potrebbe essere utilizzate per le relazioni commerciali, pur ammettendo che fosse ancora presto per ipotizzare uno scenario simile sul petrolio.

Bitcoin in Russia oggi

La Russia è sotto embargo da parte dell’Occidente. Grossa parte delle sue riserve valutarie si trova “congelata” in Europa, per cui asset per circa 300 miliardi di dollari risultano indisponibili alla Banca di Russia. A Mosca serve un modo per sganciarsi da dollaro ed euro senza compromettere la sua stabilità finanziaria. Una missione all’apparenza impossibile. Il dollaro è valuta di riserva mondiale, utilizzato per commerciare moltissime materie prime e denominare gran parte delle riserve in valuta.

I russi stanno convertendo parte dei loro risparmi in crypto, in molti casi esportandoli a Dubai, una sorta di Svizzera del Medio Oriente ancora più sicura sul fronte del segreto bancario. Ricorrere ai Bitcoin per vendere petrolio, però, non sembra al momento una buona idea. Il suo mercato capitalizza tra 750 e 800 miliardi di dollari, ma è poco liquido. Gli scambi sono relativamente scarsi, mentre dovete pensare che il cambio euro-dollaro quotidianamente vede transazioni per quasi 5.000 miliardi di dollari.

Sarebbe per difficile per un cliente reperire sufficienti Bitcoin per acquistare petrolio. La Cina, poi, ha messo al bando le crypto e la Turchia ci è andata vicina. La stessa Banca di Russia a gennaio ne aveva chiesto il divieto, scontrandosi con il governo.

Le sole esportazioni di greggio russo prima dell’invasione dell’Ucraina ammontavano a 5 milioni di barili al giorno, pari a un controvalore di quasi 600 milioni di dollari ai prezzi attuali. Se tutti i barili fossero saldati in Bitcoin, ne servirebbero almeno 15.000 al giorno, cioè quasi 5,5 milioni all’anno, a fronte di un’offerta totale di 19 milioni, di cui solamente una parte negoziata sulle piattaforme exchange. E, superato questo step, cosa se ne farebbe la Russia dei Bitcoin? Dovrebbe monetizzarli o diffonderne l’uso tra i russi come fosse una valuta a tutti gli effetti. Ciò presupporrebbe sia un riconoscimento legale, sia una fiducia consolidata tra i cittadini russi.

Manca alternativa al dollaro

Accumulare Bitcoin tra le riserve sarebbe molto rischioso, dato che si tratta di un asset molto volatile. Oltretutto, i paesi stranieri potrebbero non assegnarli alcun valore e, di conseguenza, la Russia sarebbe trattata come se non disponesse di riserve valutarie, alla stregua di un’economia fallita e inaffidabile. Se, invece, Gazprom rivendesse i Bitcoin dopo averli incassati per tramutare i ricavi in rubli (o valute straniere, almeno in parte), di fatto si tratterebbe di un’operazione poco sensata, che finirebbe solamente per rendere più macchinosa e lenta la macchina dell’export.

A cosa è dovuta, quindi, la dichiarazione di Zavalny? Probabile che sia la spia di una profonda frustrazione del governo per l’isolamento finanziario sul piano internazionale accusato con la guerra. Probabile anche che abbia mirato a segnalare ai paesi occidentali l’utilizzo di ogni arma per sottrarsi alla morsa delle sanzioni.

I governi europei e gli USA vedono come fumo negli occhi le crypto, temendo che dietro ad esse si celino movimenti dei capitali sfuggenti ai loro controlli e che esse possano minacciare la stabilità finanziaria globale e il ruolo di valute come il dollaro sui mercati. La verità è che manca ad oggi un’alternativa credibile e concreta al biglietto verde. La Cina ci sta lavorando, ma non è cosa dell’oggi e nemmeno di domani.

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