Salvo sorprese, il Partito Democratico (PD) questa settimana presenterà la lista con alleati solamente i Verdi e Sinistra Italiana. Alcuni seggi saranno assegnati a Luigi Di Maio e Bruno Tabacci, che in dote porteranno meno di niente. Insomma, i democratici di Enrico Letta corrono senza alleati di peso alle elezioni politiche. E dire che la legge elettorale fosse stata scritta da Ettore Rosato, da cui prende il nome Rosatellum, al tempo in cui era un parlamentare del PD prima di passare con Italia Viva di Matteo Renzi.

A Camere sciolte, il segretario era stato chiaro: saremo alleati solamente di coloro che porteranno avanti l’Agenda Draghi. Chi ha fatto cadere il governo, resterà fuori dal perimetro delle alleanze.

Nella strategia di Letta, il PD avrebbe corso insieme ai centristi nel nome di Mario Draghi, alleato ciononostante con la sinistra, la quale non avrebbe infastidito nessuno, date le minuscole dimensioni elettorali e la scarsa capacità dei suoi leader di incidere sul programma di coalizione. Questa linea avrebbe reso il PD il partito-perno dell’Agenda Draghi, cioè il più rassicurante e affidabile agli occhi dei cittadini, dei mercati e delle cancellerie straniere.

Non aveva messo in conto l’ex premier che i centristi detestino il PD per via della sua bulimia di potere e, soprattutto, per risentimenti personali. Carlo Calenda e Renzi sono ex esponenti del Nazareno, il secondo ne fu leader e premier. Verso la loro ex casa nutrono un mix di disprezzo e spirito di revanchismo. In più, le rispettive basi elettorali di PD non vogliono sentire parlare. Basta essere andati sul profilo social di Calenda per capire quanto indigesta fosse stata l’alleanza stretta la scorsa settimana e rotta domenica pomeriggio.

Letta senza alleati di peso

Legandosi all’Agenda Draghi, cioè rompendo con il Movimento 5 Stelle, Letta ha così gettato alle ortiche tre anni di peripezie del suo partito.

Da strenuo oppositore dei “grillini”, nel giro di una notte agostana nel 2019 ne divenne un alleato stretto e fedele. Giuseppe Conte, dipinto fino ad allora come un demagogo populista alla sudamericana, improvvisamente fu trasformato in un riferimento per i progressisti.

E poiché il PD s’innamora delle cariche e non di chi le ricopre, quando a Palazzo Chigi Draghi subentrò all'”avvocato del popolo”, quest’ultimo fu rimpiazzato con altrettanta fretta a favore dell’ex banchiere centrale. L’Agenda Draghi non significa letteralmente nulla sul piano programmatico, ideale e visionario del futuro. Esso è stato il programma di un governo di larghe intese e destinato a durare, nel migliore dei casi, due anni. Sul piano politico è sempre stato necessariamente scolorito, avendo dovuto mettere assieme da Forza Italia al PD, dal Movimento 5 Stelle alla Lega. Insomma, porre l’Agenda Draghi quale discrimine per far parte del “campo largo” lettiano è stata una mossa priva di qualsiasi fondamento logico.

Adesso, il segretario dovrà sperare che possa servire a qualcosa “fare gli occhi di tigre” in campagna elettorale. Comunque vadano le elezioni del 25 settembre, il PD dovrà riflette su due aspetti: perché a ogni appuntamento elettorale arriva con l’urgenza di coprirsi ora al centro e ora a sinistra e con un vuoto di alleati attorno. Se anziché ricorrere quotidianamente ai mezzucci del palazzo per restare abbarbicato alle poltrone anche quando perde nettamente le elezioni, si costruisse la caratura di un partito socialdemocratico di massa, interpretando le istanze dei ceti popolari e collegandole a quelle del ceto medio, non avrebbe bisogno di affidarsi ai Di Maio di turno.

Da Conte all’Agenda Draghi

Nel 2019, preso atto che il PD non fosse in grado di attirare consensi tra i delusi e i dimenticati dalla politica, i suoi dirigenti pensarono bene di abbracciare i grillini per questione di pura aritmetica.

Ma in politica i consensi non si sommano come fossero patate o arance al chilo. Alla lunga, le incongruenze programmatiche e di visione delle cose esplodono. E’ accaduto dopo tre anni, ma se non ci fosse stata la pandemia di mezzo probabilmente sarebbe accaduto già dopo pochi mesi.

La furbizia non ha pagato. “Occhi di tigre” pensava di aver messo nel sacco tutti con la storia patetica, grottesca delle alleanze parallele e della spartizione dei collegi senza alcun accordo di governo sottostante per sua stessa ammissione. Da un lato l’Agenda Draghi, dall’altro i contrari ad essa. Lo stesso Letta ha dimostrato, insomma, di non credere a cosa stesse facendo. Ritenava che gridare “al lupo” sarebbe bastato per costruire una coalizione anti, come sempre è stato negli ultimi trenta anni a sinistra. Stavolta, no. Il partito-sistema è arrivato al capolinea in quanto repelle. Né potrà fare leva sull’invocazione di un salvatore della patria dopo essere stato al governo nazionale dal 2011 quasi ininterrottamente.

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