Dai massimi toccati nel marzo scorso, quando infuriarono le tensioni sui mercati finanziarie per l’emergenza Coronavirus, il dollaro ha perso oltre otto punti e mezzo percentuali in media contro le altre valute principali. Ieri, risultava sceso ai livelli più deboli di quasi due anni. Il cambio euro-dollaro, ad esempio, è il cross più importante al mondo sul forex ed è passato in pochi mesi da 1,065 a 1,16, portandosi ai massimi dal settembre 2018.

Cambio euro-dollaro ai massimi dal 2018, ecco cosa succede

Il dollaro è un tipico “safe asset”, che tende ad apprezzarsi nelle fasi critiche per l’economia globale e a sgonfiarsi quando sale la propensione al rischio.

La relativa debolezza di queste settimane, però, avrebbe cause anche endogene. Tra marzo e giugno, la Federal Reserve ha iniettato sul mercato americano circa 3.000 miliardi di dollari, attraverso acquisti di assets e prestiti diretti alle imprese. Nel frattempo, il governo ha stanziato altri 3.000 miliardi per sostenere i redditi e il Congresso si appresta a discutere di ulteriori aiuti per 1.000 miliardi.

In brevissimo tempo, il mercato si è trovato inondato di liquidità come mai prima ad oggi e tale da fare impallidire persino il precedente del 2008-’09, quando esplose la crisi finanziaria originata dai mutui “subprime”. L’eccesso di dollari in circolazione non può che portare a un indebolimento dei tassi di cambio, almeno dal momento in cui le altre banche centrali non avvertano più l’impellenza di tenere valuta americana più del dovuto. Per questo, giovedì il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin, ha sentito l’esigenza di esprimere sostegno al dollaro, notando come esso sia valuta di riserva globale e rassicurando che il governo “lo proteggerà”.

Cambio di passo di governo e Fed?

Il prezzo dell’oro a ridosso dei 1.900 dollari l’oncia non fa che confermare quanto diffusi sarebbero sui mercati i timori per la congiuntura globale e al contempo rispecchierebbe anche aspettative negative sul dollaro.

E questo non piace al Tesoro, perché un eventuale deprezzamento del biglietto verde oggi farebbe lievitare i prezzi dei beni importati, traducendosi in inflazione e tassi d’interesse più alti, colpendo la ripresa dell’economia americana e rendendo più costoso il rifinanziamento dell’elevato debito federale di Zio Sam. Solo così si spiegherebbe la discesa in campo di Mnuchin, anche perché ancora oggi il dollaro vale circa il 25% in più rispetto ai minimi toccati nel 2011. Allora, l’America era in piena era dei tassi a zero e la Fed nel bel mezzo del suo ciclo monetario espansivo.

Ma non basteranno le parole a sostenere il cambio. Solo una politica fiscale e monetaria complessivamente meno accomodante potrà apprezzarlo, sebbene appaia abbastanza complicato che al momento la Fed possa alzare i tassi e/o tagliare considerevolmente gli acquisti di assets e il governo rinunci a varare nuovi aiuti per famiglie e imprese in piena campagna elettorale. Vero è, per contro, che dai massimi di giugno il bilancio dell’istituto si sia già ridotto di circa 170 miliardi di dollari, segnalando un rallentamento nei ritmi di conduzione degli acquisti da parte del governatore Jerome Powell.

Ricordiamoci che gli USA sono un’economia importatrice netta cronica, per cui hanno bisogno di importare capitali dal resto del mondo per commerciare. E i capitali si spostano alla ricerca di “yield”, l’azzeramento dei quali origina deflussi, che l’America oggi non vuole potersi permettere, almeno non prima che sia arrivata la ripresa e che gli indici macro abbiano superato il Covid, la cui fase emergenziale qui è tutt’altro che cessata. Vero è, del resto, che un cambio più debole darebbe una mano alle esportazioni, anche se il principale problema dell’economia americana resta l’eccesso dei consumi interni. E potrà essere affrontato strutturalmente solo con conti pubblici in equilibrio e minore accomodamento monetario.

Riprea a “V” dell’economia americana ambigua sul dollaro

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