Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e pure risparmiatori. I depositi bancari sono lievitati anche a giugno nel nostro Paese, arrivando alla cifra di 1.780,5 miliardi di euro. Il dato si riferisce alla clientela privata (famiglie e imprese) e con riferimento a conti correnti, conti deposito e pronti contro termine. Sommando anche i 207,5 miliardi delle obbligazioni bancarie, l’intera raccolta sale a 1.988 miliardi.

I depositi bancari sono cresciuti di circa 444 miliardi nel giro di cinque anni, segnando un balzo percentuale del 33,2%.

Tenuto conto che stiamo parlando di un periodo di bassa crescita per l’economia prima del tracollo accusato con il Covid, non possiamo dedurre che i risparmiatori se la passino meglio di anno in anno e che i loro conti “gonfi” siano conseguenza di un aumento generale del benessere. Al contrario, il boom di questi anni si spiega con i bassi consumi e il pessimismo delle famiglie circa le prospettive future.

Una cosa è certa: con questi numeri, i risparmiatori italiani stanno “bruciando” letteralmente una cifra immensa dei loro depositi bancari. Con l’azzeramento dei tassi e il varo di potenti stimoli monetari da parte della BCE, infatti, le banche non offrono più nulla sui conti accesi presso le loro filiali. Sempre a giugno, mediamente un conto deposito era remunerato a un tasso di appena lo 0,32%, mentre i pronti contro termine esitavano lo 0,75%. Solamente 0,03% per i conti correnti. Tutti al lordo della tassazione del 26%, s’intende.

Depositi bancari in fumo e l’assenza di alternative pratiche

In sostanza, portare i soldi in banca ormai non rende affatto. Per contro, sta risalendo l’inflazione. Ad agosto, era al 2,1%, livello massimo da inizio 2013. L’inflazione erode il potere di acquisto della moneta. Significa che con la stessa quantità di denaro, possiamo acquistare meno beni. Dunque, se i depositi bancari degli italiani vengono remunerati meno dell’inflazione, i risparmiatori di fatto stanno perdendo denaro, pur senza accorgersene.

Dopo tot anni, infatti, si ritroveranno con un potere di acquisto più basso, un po’ come se avessero buttato nel bidone dell’immondizia parte dei loro soldi.

Facciamo due conti. Ipotizziamo che tutti i depositi bancari di cui sopra siano in forma di conti deposito, remunerati allo 0,24% netto. Con un’inflazione sopra il 2%, su 1.780,5 miliardi la perdita del potere di acquisto in un solo anno ammonterebbe a oltre 33 miliardi, quasi 2 punti di PIL. In soli 5 anni, saliremmo a più di 160 miliardi.

Ha senso tutto ciò? Evidentemente, sì. Se le famiglie volessero impiegare il loro denaro in maniera più proficua, dovrebbero puntare su asset più rischiosi, dato che al momento i titoli di stato offrono rendimenti negativi fino ai 5 anni e non coprono l’inflazione neppure con la scadenza dei 50 anni. Le stesse azioni appaiono sopravvalutate in giro per il mondo. Servirebbe un approccio meno dilettantesco alla gestione del risparmio, ma la cultura finanziaria è quel che è in Italia. A voler essere ottimisti, comunque, molta di questa liquidità è pronta ad essere impiegata in altri strumenti, quando diverranno sufficientemente redditizi.

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